I versi di Michele Mari tratti dalla sua raccolta poetica Cento poesie d’amore a Ladyhawke condensano in poche parole una riflessione profonda e malinconica sul tempo, sulla memoria e sull’amore perduto o forse solo sospeso. Sono versi che, nella loro apparente semplicità, contengono una densità emotiva e simbolica notevole, come spesso accade nella poesia di Mari, autore noto per una scrittura che sa essere allo stesso tempo ironica, colta, struggente e capace di evocare immagini nitide e universali.
“Tu non ricordi
ma in un tempo
così lontano che non sembra stato
ci siamo dondolati
su un’altalena sola”
Michele Mari e il messaggio d’amore lasciato nel vento
La raccolta Cento poesie d’amore a Ladyhawke, pubblicata nel 2007 da Einaudi, è un libro singolare nel panorama poetico italiano contemporaneo. Michele Mari vi affida una lunga e ininterrotta dichiarazione d’amore, una sorta di canzoniere moderno dove il destinatario — o la destinataria — resta per lo più indefinito, se non per il richiamo al titolo del celebre film Ladyhawke degli anni Ottanta, in cui i due protagonisti, a causa di una maledizione, possono vedersi solo un attimo ogni giorno, quando il giorno incontra la notte. Un riferimento che da solo racconta di una storia d’amore impossibile, o forse solo dolorosamente frammentata.
I versi in questione si aprono con una constatazione che è già un piccolo dolore: “Tu non ricordi”. È la presa d’atto di uno scarto nella memoria condivisa, di una dimenticanza da parte dell’altro che diventa, per chi scrive, il principio di una lacerazione. Ma non è una dimenticanza qualunque: riguarda un momento così remoto da sembrare quasi irreale, “un tempo / così lontano che non sembra stato”. L’espressione ha una delicatezza struggente: il passato che si allontana a tal punto da perdere consistenza, che rischia di dissolversi in una nebbia di incertezza, come quei sogni che al risveglio paiono solo intuizioni di ricordi.
La memoria è un tema ricorrente nella poesia amorosa di tutti i tempi, ma Mari la declina qui in modo originale. Non è solo il rimpianto per un tempo passato, né un semplice esercizio nostalgico. È la consapevolezza della fragilità stessa della memoria, del fatto che ciò che per noi è stato un attimo fondativo, un frammento luminoso e irrinunciabile, può per l’altro essere scivolato via senza lasciare traccia. La poesia diventa allora il tentativo disperato e commovente di trattenere quell’attimo, di ribadirne l’esistenza almeno nella parola scritta, se non nel ricordo altrui.
Il cuore emotivo e simbolico della lirica è nell’immagine dell’altalena: “ci siamo dondolati / su un’altalena sola”. L’altalena è un oggetto semplice, legato all’infanzia, al gioco, ma anche a quella sensazione ambivalente di piacere e precarietà, di leggerezza e rischio che il movimento oscillatorio comporta. Dondolarsi insieme su un’unica altalena è un’immagine di complicità estrema, di intimità fisica e affettiva che trascende il tempo e il luogo. È il simbolo perfetto di un amore vissuto in equilibrio precario tra il passato e il presente, tra il ricordo di uno e l’oblio dell’altro.
Se quell’altalena era una sola, è perché il legame era unico e indivisibile, come lo sono le esperienze fondative che ci plasmano. Eppure, ora quella condivisione è asimmetrica: uno dei due ricorda, l’altro no. È una situazione che Michele Mari riesce a restituire con una sobrietà e una grazia che toccano il lettore proprio perché evitano ogni retorica del dolore. La poesia non grida vendetta, non si compiace nel lamento: constata, con lucidità e tenerezza.
La poetica di Michele Mari
In questo piccolo testo si ritrovano molti dei tratti tipici della poesia di Mari: il richiamo a un lessico familiare, quotidiano, mai artefatto; l’uso calibrato della memoria come dispositivo narrativo e affettivo; l’irruzione del passato nell’orizzonte del presente; il rapporto dialettico tra il ricordo personale e la sua condivisione. È una poesia che, come tutta la raccolta Cento poesie d’amore a Ladyhawke, riesce a essere profondamente personale e al tempo stesso universale, perché chiunque ha sperimentato almeno una volta nella vita quella discrepanza tra ciò che per noi è indimenticabile e ciò che per l’altro è irrimediabilmente svanito.
La forza di questi versi sta proprio nella loro essenzialità, nella capacità di evocare una scena minima — due persone su un’altalena — e di trasformarla in una metafora per tutte le relazioni umane segnate dal tempo, dall’assenza, dalla memoria che vacilla. È la poesia di chi sa che le parole possono essere fragili, ma proprio per questo necessarie, perché servono a tenere in vita ciò che rischia di perdersi nel silenzio.
Ecco la poesia nella sua completezza:
Tu non ricordi
ma in un tempo
cosí lontano che non sembra stato
ci siamo dondolati
su un’altalena solaChe non finisse mai quel dondolio
fu l’unica preghiera in senso stretto
che in tutta la mia vita
io abbia levato al cielo