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I versi di Metastasio sul nostro cuore che prova amore

Leggiamo questi versi concisi e carichi di pietas contenuti nel dramma scritto da Metastasio "Catone a Utica" e detti da Arbace a Marzia.

Nel dramma Catone in Utica, uno dei più celebri componimenti teatrali di Pietro Metastasio, questi versi affidati ad Arbace concentrano tutta la struggente delicatezza di un amore non corrisposto. Si tratta di una delle molteplici arie in cui il poeta e librettista settecentesco dà voce a sentimenti profondamente umani: il desiderio d’amore, la delusione, la speranza che si affida almeno alla pietà, quando la reciprocità amorosa sembra negata.

Il personaggio che pronuncia queste parole, Arbace, è travolto da un affetto sincero e costante per Marzia, figlia del fiero Catone e amata anche da Cesare. Ma Marzia, pur riconoscendo il valore di Arbace, è combattuta tra il rispetto per il padre, l’attrazione per il vincitore e i propri sentimenti, confusi e oscillanti.

«Poveri affetti miei,
se non sanno impetrar dal tuo bel core
pietà, se non amore»

La scena in cui Arbace si rivolge a Marzia è carica di tensione drammatica: egli espone senza difese la propria vulnerabilità, si affida alle parole come unico strumento per cercare di smuovere il cuore della donna che ama. La sua è una supplica tenera e intensa, in cui si mescolano rassegnazione e speranza, sconfitta e dignità. Il tono dei versi è tipicamente metastasiano: elegante, misurato, ma profondamente emotivo.

La tenerezza della sconfitta nel dramma di Pietro Metastasio

«Poveri affetti miei»: l’incipit è disarmante. Arbace non accusa Marzia, non la rimprovera per la sua indifferenza, non esige. Rivolge lo sguardo ai propri sentimenti, quasi con compassione. Quegli affetti, così sinceri, così profondi, appaiono “poveri”, ovvero spogli, inermi, privi di efficacia. Non sono abbastanza forti da ottenere ciò che più desiderano: il cuore dell’amata. C’è in questa parola — “poveri” — tutto il dolore della consapevolezza che l’amore, per quanto intenso, non basta a farsi amare. È uno degli assi centrali della poetica metastasiana: l’amore non può essere forzato né conquistato, può solo essere sperato, desiderato, implorato.

Il verbo “impetrar” è una scelta dotta e significativa. Non è un verbo di uso comune, ma attinge a un registro elevato, letterario, tipico della lingua settecentesca. Significa “ottenere con preghiere insistenti”, e la sua presenza ribadisce che Arbace non sta domandando con orgoglio o pretesa, ma con umiltà e abbandono. Egli non chiede di essere riamato con forza, ma si accontenterebbe anche della pietà, se l’amore non è possibile. In questo si rivela uno dei tratti più toccanti e moderni del personaggio: non pretende nulla, ma espone il proprio bisogno d’essere almeno compreso.

Pietà, se non amore

Il cuore di Marzia viene definito “bel”, secondo un topos poetico tradizionale. Ma l’aggettivo non è solo estetico: è anche morale. È un cuore che dovrebbe sapere ascoltare, accogliere, rispondere. Eppure, quel cuore resta muto. Così Arbace abbassa le proprie aspettative: se non potrà ottenere amore, si accontenterà della pietà. La pietà diventa così l’ultima possibilità d’incontro tra due esseri umani. Non è l’amore condiviso, ma è una forma di umana vicinanza, una risposta al dolore altrui.

Nel contesto metastasiano, e più in generale in tutta la drammaturgia lirica del Settecento, questa distinzione tra amore e pietà è centrale. L’amore è spesso soggetto a ostacoli insormontabili: le ragioni di Stato, l’onore, la famiglia. In sua assenza, i personaggi si aggrappano a un sentimento che possa restituire dignità all’amante respinto: la compassione dell’amato, un gesto di riconoscimento che dia valore alla sincerità del sentimento offerto. Arbace, insomma, non vuole essere dimenticato o ridicolizzato. Vuole che Marzia sappia quanto lui ha amato, e che lo rispetti per questo.

Il contesto drammatico e morale

Catone in Utica è una tragedia politica e morale, ispirata al suicidio del repubblicano Catone dopo la vittoria di Cesare. In essa, il contrasto tra i doveri pubblici e i sentimenti privati si fa tema dominante. Marzia è simbolo di questo conflitto: divisa tra la lealtà al padre e la passione per Cesare, tra il rigore morale e il desiderio. Arbace rappresenta invece l’amore puro, costante, disinteressato. Il suo sentimento, però, non trova spazio nella tempesta degli eventi politici e familiari. Per questo, i suoi versi si caricano di malinconia, diventano il canto di un amore impossibile che, non trovando sbocco, si ritira dignitosamente nella memoria e nel dolore.

La lezione di Metastasio

I versi di Arbace sono un perfetto esempio della forza espressiva della poesia metastasiana, capace di coniugare musica e parola, forma e sentimento. Essi esprimono una verità umana universale: non sempre chi ama è amato, ma l’amore resta comunque degno, persino se resta inascoltato. La richiesta di pietà è l’ultima forma di dignità che un cuore ferito può rivendicare.

Nel nostro tempo, in cui i sentimenti sembrano spesso vissuti in modo impulsivo e semplificato, questi versi ci ricordano quanto sia importante saper rispettare la profondità delle emozioni. L’amore non è solo passione, ma anche vulnerabilità, attesa, rinuncia. E Metastasio, con la sua arte sapiente, ce lo insegna con parole che, a distanza di secoli, risuonano ancora vere.

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