Marina Cvetaeva, con la sua straordinaria sensibilità poetica e la sua acuta riflessione sul linguaggio, offre una distinzione che va ben oltre la semplice semantica: la differenza tra “bello” e “magnifico”. Nel suo saggio “Il poeta e il tempo“, l’autrice rifiuta una concezione superficiale della bellezza e introduce un criterio di valutazione più profondo e significativo.
«Bello» è un criterio di misura esterno, «magnifico» – interiore. Una bella donna – una donna magnifica, un bel paesaggio – una magnifica musica. Con la differenza che un paesaggio, oltre che bello, può essere anche magnifico (rafforzamento – l’esteriore elevato a interiore), e invece la musica può essere solo magnifica, non può essere bella (indebolimento – l’interiore ridotto a esteriore). Non solo: basta che un fenomeno esca dal campo del visibile e del materiale perché già «bello» non gli si adatti più. Un bel paesaggio di Leonardo? Non si dice.
Una «bella musica», «bei versi» – misura dell’ignoranza poetica e musicale. Stupido idiotismo.
Marina Cvetaeva e la superficialità dei giudizi
Secondo Marina Cvetaeva, il concetto di “bello” si riferisce a un parametro esterno, visibile e tangibile. Una donna può essere definita bella per l’armonia delle sue forme, un paesaggio può essere bello per la sua composizione cromatica e prospettica. La bellezza, in questo senso, si basa su una percezione immediata, su una qualità che può essere osservata e riconosciuta attraverso i sensi. Essa non richiede necessariamente una risonanza interiore o una riflessione profonda; basta la sua presenza per suscitare un senso di piacere estetico.
L’autrice sottolinea come “bello” sia un criterio di misura che appartiene alla sfera del visibile e del materiale. Si tratta di un valore legato alla forma e non al contenuto, alla superficie piuttosto che alla sostanza. Per questo motivo, si può dire che una donna è bella, che un quadro è bello, che un paesaggio naturale è bello: tutti questi elementi appartengono a un dominio in cui l’apparenza ha un ruolo determinante.
Il “magnifico” come profondità interiore
Diversamente dalla bellezza, la magnificenza, per Cvetaeva, rappresenta un criterio interiore. Ciò che è magnifico non è solo esteticamente valido, ma possiede una forza intrinseca che va oltre l’apparenza. Una donna magnifica non è soltanto bella, ma emana una presenza e una personalità che trascendono il semplice aspetto fisico. Un paesaggio magnifico non è solo armonioso dal punto di vista visivo, ma comunica qualcosa di più profondo, una sensazione che tocca le corde dell’animo umano.
Questa distinzione tra bellezza e magnificenza diventa particolarmente rilevante quando si parla di forme d’arte che non appartengono al regno del visibile. Marina Cvetaeva osserva, infatti, che mentre un paesaggio può essere definito sia bello che magnifico, la musica può essere solo magnifica. Questo perché la musica non si presta a una valutazione basata sulla forma esteriore: essa agisce direttamente sulle emozioni, sulla sensibilità interiore, senza passare attraverso il filtro della vista. Definire “bella” una musica, quindi, sarebbe un errore concettuale, una riduzione indebita della sua essenza.
La riflessione di Marina Cvetaeva si spinge ancora più in là, fino a mettere in discussione il linguaggio stesso della critica artistica e letteraria. Nella sua visione, definire “bella” una poesia o una melodia è indice di ignoranza estetica. L’arte non è mai semplicemente “bella”; la sua potenza risiede nella capacità di evocare emozioni, di trasformare l’animo di chi l’ascolta o la legge. Definire un verso “bello” significa limitarne il valore a un parametro superficiale, quando invece la poesia è magnificenza, profondità, un’energia che trascende le parole stesse.
Da questa prospettiva, Cvetaeva demolisce l’uso ingenuo di aggettivi come “bello” per descrivere l’arte e la letteratura. La poesia non può essere bella nello stesso modo in cui lo è un dipinto di Leonardo da Vinci. Il linguaggio poetico non si limita a riprodurre forme armoniose: esso evoca, sconvolge, trasforma. La sua grandezza sta nella capacità di penetrare nell’animo umano, e questa non è una caratteristica estetica, bensì interiore.
L’arte come esperienza interiore
L’intuizione di Cvetaeva ha profonde implicazioni per la nostra percezione dell’arte e della bellezza. Se accettiamo la sua distinzione, dobbiamo riconsiderare il nostro modo di descrivere e valutare le opere artistiche. Un’opera musicale, una poesia, un romanzo non si limitano a essere “belli”; essi agiscono su un piano più profondo, toccano corde interiori che vanno oltre la percezione visiva o sensoriale.
La magnificenza, in questa prospettiva, è ciò che distingue l’arte autentica da quella superficiale. Un’opera d’arte non deve semplicemente apparire gradevole, ma deve suscitare un impatto emotivo, una risonanza interiore. La musica di Beethoven non è bella: è magnifica, perché comunica un’intensità che supera il mero piacere estetico. La poesia di Cvetaeva stessa non può essere ridotta a una questione di bellezza formale: essa è un’esperienza che tocca le profondità dell’essere umano.
La distinzione proposta da Marina Cvetaeva tra “bello” e “magnifico” ci invita a riflettere sulla nostra percezione della bellezza e dell’arte. Se il bello rimane legato all’apparenza e alla forma, il magnifico è un’esperienza interiore, una qualità che trascende il visibile per toccare il nucleo più profondo della sensibilità umana. Questa riflessione ci spinge a riconsiderare il linguaggio che utilizziamo per descrivere le opere d’arte, e a riconoscere che l’autentica grandezza non si misura in termini di mera armonia estetica, ma nella capacità di generare emozioni, di trasformare chi osserva, ascolta o legge.