Nei versi tratti da Poema della fine, Marina Cvetaeva mette in scena uno degli scambi più drammatici e struggenti dell’intera letteratura amorosa del Novecento. Il componimento è un piccolo dialogo poetico tra due amanti, ma in realtà è un confronto frontale tra due concezioni dell’amore e, più ancora, tra due stadi di un rapporto: l’agonia e la speranza, la disillusione e l’attaccamento disperato. La poesia diventa teatro di un amore morente, dove ogni parola pesa come un colpo inferto al corpo del sentimento, e ogni risposta è già un addio in forma larvata.
Spio il movimento delle labbra.
Lo so: non lo dirà per primo.
«Non mi ami più?» – «Ti amo…»
«Non mi ami!» – «Ma sono distrutto,sfinito, estenuato…»
E, scrutando il locale: «Questa
sarebbe la casa?» – «Le case
sono nei cuori.» «Favole, cara,letteratura! L’amore è carne, fiore
che innaffiamo col sangue.
O pensi che sia conversare
seduti a un tavolino?
Marina Cvetaeva e l’amore che passa attraverso i sensi
Il componimento si apre con una tensione che è tutta affidata al silenzio e allo sguardo: “Spio il movimento delle labbra. // Lo so: non lo dirà per primo.” La voce narrante — una donna, presumibilmente — osserva l’altro attentamente, cercando un segno, un gesto che infranga il muro del non detto. Ma sa già, con quella chiaroveggenza dolente tipica degli amanti traditi dalla vita, che l’altro non dirà ciò che lei teme e desidera: l’addio. In questo sguardo vi è l’intera consapevolezza di un amore che sta scivolando via.
Il dialogo che segue è breve, ma densissimo di implicazioni: «Non mi ami più?» – «Ti amo…» // «Non mi ami!» – «Ma sono distrutto, // sfinito, estenuato…». La donna pone una domanda diretta, che ottiene una risposta meccanica, quasi automatica: «Ti amo». Eppure la risposta non la convince, perché non è nella parola ma nella presenza — o meglio, nell’assenza — che si riconosce l’amore.
Infatti, l’interrogativa si fa subito accusa: «Non mi ami!» Il tentativo di lui è di difendersi non con sentimenti, ma con condizioni fisiche: “sono distrutto, sfinito, estenuato”. È l’amore che manca, o la forza di viverlo? La stanchezza dell’uomo è vera, ma nel contesto della poesia suona come una giustificazione che non basta, un modo per scansare la responsabilità del disamore.
Nella seconda parte della poesia, la tensione cresce ancora: “E, scrutando il locale: ‘Questa / sarebbe la casa?’ – ‘Le case / sono nei cuori.’ ‘Favole, cara, // letteratura!’”. La discussione si sposta sulla possibilità di condividere uno spazio, un futuro. Ma l’uomo guarda il locale, cerca concretezza, e giudica inadeguata quella che dovrebbe essere la casa dell’amore. La risposta della donna è poetica, simbolica: «Le case sono nei cuori». Ma per lui questo non è che “letteratura”, favole. L’uomo non crede più nei simboli, nella costruzione sentimentale: vuole certezze tangibili, presenza reale, non astrazione. La frattura tra i due è insanabile: uno crede ancora nella possibilità simbolica dell’amore, l’altra — perché a questo punto i ruoli si sfumano — ha bisogno di corpo, di realtà.
La poesia culmina in un verso che sembra una dichiarazione di poetica e di visione esistenziale al tempo stesso: “L’amore è carne, fiore // che innaffiamo col sangue.” Non è un pensiero astratto, né una metafora romantica: è una visione quasi sacrificale dell’amore. L’amore è un corpo vivo, una creatura che ha bisogno del nutrimento più vitale e violento: il sangue. Il fiore, fragile e bellissimo, non sopravvive con parole, attenzioni superficiali o promesse. Ha bisogno di un dono assoluto, di dedizione sanguinosa. Marina Cvetaeva costruisce qui un’immagine potente, quasi brutale, che ci restituisce l’amore come urgenza vitale e devastazione insieme.
Infine, la chiusa: “O pensi che sia conversare // seduti a un tavolino?” è un’amara ironia che spezza ogni illusione. L’amore non è compagnia garbata, non è dialogo borghese al tavolino di un caffè. È una lotta, una fusione, un sacrificio. Questa visione dell’amore come esperienza totalizzante — e per questo, spesso, tragica — è centrale nell’opera di Marina Cvetaeva. Per lei, amare significa perdere se stessi, bruciarsi, vivere in un continuo stato di tensione tra desiderio e annientamento.
Ciò che colpisce di questi versi è l’assoluta modernità nella rappresentazione del fallimento amoroso. Non ci sono colpevoli, né drammi plateali. C’è solo l’inevitabilità di una fine che si consuma nei dettagli, nella stanchezza, nella perdita della fiducia nei simboli. L’uno parla di carne, l’altra risponde con il cuore. E proprio in questa dissonanza, nel mancato incontro tra due linguaggi d’amore, si consuma la tragedia.
I sensi inebriati
Ma la forza della poesia non sta solo nel contenuto, bensì nella forma: il tono colloquiale, quasi teatrale, rende ogni battuta una lama affilata. Marina Cvetaeva riesce a fare della poesia un dialogo vivo, teso, che vibra di pathos e disperazione. Non è solo una storia d’amore che finisce: è la resa dei conti tra chi ama ancora e chi non riesce più a farlo.
In conclusione, Poema della fine non è solo il racconto di un amore morente, ma anche un grido contro la banalizzazione del sentimento. In un mondo che cerca comode definizioni, Marina Cvetaeva ci ricorda che l’amore è sfida, corpo, verità, sangue. Non basta sedersi a un tavolino e parlare: bisogna essere pronti a innaffiare quel fiore — anche a costo di sé stessi.