I versi di Mahmud Darwish su memoria e dimenticanza

27 Giugno 2025

Leggiamo assieme questi versi del più grande poeta contemporaneo palestinese Mahmud Darwish, tratti dalla sua poesia "Questa è dimenticanza".

I versi di Mahmud Darwish su memoria e dimenticanza

“Tutto quel che hai intorno è dimenticanza”: con questa dichiarazione netta, intensa, Mahmud Darwish — poeta della diaspora palestinese, della memoria collettiva e dell’esilio — ci introduce in un paesaggio emotivo e simbolico fatto di apparente normalità urbana, ma in cui ogni oggetto, ogni presenza, è segnata dall’oblio. I versi tratti dalla poesia Questa è dimenticanza non raccontano solo la perdita della memoria, ma ci interrogano profondamente su come la dimenticanza si annidi nel quotidiano, negli spazi pubblici, nei simboli che dovrebbero mantenere viva la storia e invece la svuotano.

Tutto quel che hai intorno è dimenticanza: i cartelloni
che risvegliano il passato, sollecitano il ricordo. Tenendo a freno
il tempo di accelerazione ai semafori,
e chiudendo le piazze

Una statua di marmo è dimenticanza. Una statua
che ti fissa: stai in piedi come me per assomigliarmi.
E deponimi rose ai piedi

Un paesaggio della dimenticanza nei versi di Mahmud Darwish

Mahmud Darwish scrive:

“Tutto quel che hai intorno è dimenticanza: i cartelloni
che risvegliano il passato, sollecitano il ricordo.”

Già in queste prime righe il poeta costruisce un paradosso: la dimenticanza non si oppone al ricordo, ma convive con esso, lo evoca e lo tradisce al tempo stesso. I “cartelloni” pubblicitari o commemorativi sono, per loro natura, fatti per risvegliare qualcosa — un prodotto, un’idea, una memoria storica. Ma secondo Darwish, proprio in questo loro invocare il passato finiscono per trasformarlo in un’icona vuota, un fantasma del suo significato originario. Il passato, quando è continuamente sollecitato e usato, perde spessore e si fa superficie. Così la memoria diventa ripetizione, e poi si smarrisce nel rumore visivo del mondo urbano.

Questa idea richiama una condizione contemporanea ben nota: viviamo immersi in una miriade di richiami alla memoria — targhe, monumenti, spot pubblicitari, commemorazioni — eppure siamo sempre più incapaci di elaborare davvero il passato, di farne esperienza. L’accelerazione del presente, la fretta, il consumo delle immagini e dei simboli, svuotano ogni contenuto della sua profondità storica ed emotiva.

Il tempo controllato e le piazze chiuse

Nel verso successivo, Darwish scrive:

“Tenendo a freno il tempo di accelerazione ai semafori,
e chiudendo le piazze.”

Qui l’immagine si sposta: il tempo stesso viene trattenuto, regolato artificialmente, come in un gioco di semafori che scandiscono la vita cittadina e il movimento umano. Il tempo non è più quello ciclico o narrativo della memoria, ma quello spezzato, contingentato, funzionale all’efficienza e al controllo. I “semafori” diventano così un’immagine dell’ordine imposto, della vita ritmata da logiche urbane che lasciano poco spazio alla riflessione o alla malinconia.

Allo stesso modo, la “chiusura delle piazze” rappresenta la chiusura degli spazi pubblici del confronto, del ricordo collettivo, della testimonianza viva. Le piazze, da sempre luogo della memoria condivisa e della protesta, vengono qui serrate, rese inaccessibili, forse trasformate in meri luoghi di passaggio o di esposizione monumentale. E allora, in questo spazio controllato e reso anonimo, la dimenticanza si impone come forma dominante della vita pubblica.

La statua e la simulazione della memoria

La seconda parte dei versi introduce un’altra potente immagine simbolica:

“Una statua di marmo è dimenticanza. Una statua
che ti fissa: stai in piedi come me per assomigliarmi.
E deponimi rose ai piedi.”

La statua, per eccellenza, è l’oggetto che dovrebbe preservare la memoria, rappresentare figure storiche, eroi, momenti decisivi di una nazione o di un popolo. Ma secondo Darwish, la statua non è memoria, è dimenticanza. È pietra, freddezza, immutabilità. Non custodisce realmente il vissuto, ma lo pietrifica, lo riduce a forma vuota e idolatrata.

Nel gesto della statua che “ti fissa” si manifesta l’illusione dell’eternità: essa pretende di vivere per sempre, ma non ha vita. Chiede allo spettatore di “stare in piedi” per “assomigliarle”, cioè di imitare la sua immobilità, il suo silenzio, la sua morte simbolica. Il rituale delle “rose ai piedi” diventa così l’ultimo atto di una commemorazione sterile, un gesto automatico che sostituisce il vero confronto con il passato.

Dimenticanza come condizione esistenziale

In questi versi, Mahmud Darwish non parla solo della Palestina, della sua terra e della sua memoria collettiva negata. Parla anche della condizione umana universale, del modo in cui gli uomini — nei momenti di crisi, di modernizzazione forzata, di colonialismo culturale o politico — si confrontano con la perdita di senso.

La dimenticanza, nel suo poema, non è un semplice difetto o una colpa morale, ma una dimensione costitutiva dell’esperienza moderna. È il risultato di processi storici, culturali, estetici che svuotano i simboli, velocizzano il tempo, spersonalizzano lo spazio. Eppure, nella sua denuncia poetica, Darwish non propone un ritorno nostalgico al passato, né un’accusa diretta: ciò che fa è piuttosto costringere il lettore a vedere la dimenticanza nei suoi aspetti più banali e pervasivi.

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