Nel cuore barocco della poesia di Luis de Góngora y Argote — maestro dell’enigma e della luminosità concettuale — si celano versi che affondano il loro significato nel tempo e nella consapevolezza della fine. Il brano che proponiamo, tratto da un sonetto del grande poeta spagnolo, è un’esemplare meditazione sulla caducità della vita e sull’illusione del tempo che passa inosservato:
“Meno agognò la rapida saetta
bersaglio destinato e morse acuta,
carro da corsa nell’arena muta
non coronò con più silenzio meta,
di quanto corre, rapida e segreta,
l’età nostra alla fine. A chi ne dubita,
fosse pur fiera di ragione nuda,
ogni sole che torna sia cometa.”
Luis de Gongora e la vita che passa
Questo frammento ci pone immediatamente davanti a una delle più potenti metafore del tempo: la sua corsa silenziosa e inarrestabile, comparabile a una freccia che trova il bersaglio prima ancora di essere percepita, o a un carro che taglia il traguardo nell’arena senza un rumore, senza una celebrazione. La struttura concettuale del passo è densa, armonizzata dal ritmo del sonetto e sostenuta da un lessico tanto incisivo quanto raffinato.
Nei primi quattro versi, Góngora disegna una traiettoria visiva e sensoriale del tempo: la freccia (“la rapida saetta”) è un’immagine classica della rapidità e della destinazione inevitabile; è anche il simbolo dell’ineluttabilità del destino. La freccia “morse” il bersaglio — verbo che suggerisce contatto improvviso, doloroso e irreversibile. Subito dopo, il poeta introduce il “carro da corsa nell’arena muta”: l’evocazione del circo romano, o di una corsa solenne e tragica, dove anche la vittoria arriva senza clamore. Due immagini, quindi, che non celebrano la velocità, ma la silenziosa certezza della fine.
Questa combinazione di rapidità e mutismo è ciò che, per Góngora, definisce il vero volto del tempo: esso corre “rapido e segreto” verso la morte, verso la dissoluzione dell’essere. E proprio questo segreto, questa sottrazione alla nostra percezione, è ciò che rende l’esperienza del tempo tanto drammatica quanto poetica.
“L’età nostra alla fine” corre, suggerisce il poeta, proprio come la freccia o il carro: inevitabile, silenziosa, implacabile. L’espressione “rapida e segreta” fa del tempo un ladro perfetto, che ci accompagna senza farsi notare, che lavora nell’ombra mentre viviamo, sogniamo, amiamo. È un paradosso tragico: mentre ci sentiamo nel pieno della vita, stiamo invece muovendoci senza saperlo verso la conclusione. Il tempo è dunque uno scivolamento costante, più che una corsa sfrenata. La sua pericolosità è proprio nella mancanza di clamore: nessun avviso, nessun suono, solo un avanzare impercettibile.
La ragione che non basta
Nel sestetto conclusivo, Góngora si rivolge a chi potrebbe “dubitare” di questa corsa verso la morte. E non lo fa con sarcasmo, ma con un ammonimento poetico: anche se si fosse “fiera di ragione nuda” — cioè dotata della più lucida razionalità, priva di illusioni o sentimentalismi — la mente umana non riuscirebbe comunque a sfuggire a questa realtà. Il sole stesso, che ogni giorno sorge e sembra promettere vita, gioia, inizio, è in realtà una cometa: segno celeste di presagio, figura della caducità, corpo in transito. Ogni giorno che ci pare ciclico e pieno di vita, è in realtà una porzione sottratta alla nostra esistenza, un passo in più verso il termine.
L’immagine del sole come cometa è di straordinaria forza. Il sole che deve essere visto come cometa, perché proprio la cometa, nelle culture classiche era vista come segno di sventura e imminenti eventi nefasti, come può essere, appunto, la morte.
Questi versi, pur immersi nello stile ricco e metaforico del Barocco spagnolo, restano attualissimi per chiunque voglia interrogarsi sul senso del tempo. La tensione tra la percezione soggettiva del vivere (l’illusione di permanenza, l’inerzia dell’abitudine) e la realtà oggettiva della morte è un tema universale, capace di attraversare epoche, lingue e culture. Góngora ci invita a non fidarci delle apparenze: il tempo non annuncia il suo passaggio, ma agisce come un assassino cortese. Non urla, non distrugge con fragore: semplicemente, consuma.
Il suo sonetto, con la potenza di una visione cosmica e allo stesso tempo intima, ci ricorda che la fine è inscritta nell’inizio, e che la saggezza non consiste tanto nell’evitarla — cosa impossibile — quanto nel riconoscerla e accoglierla con lucidità.
La poesia di Luis de Góngora, in questi versi, non è solo un esercizio di virtuosismo barocco: è una riflessione profonda e malinconica sulla condizione umana, sul tempo e sull’inganno delle illusioni quotidiane. Invita alla consapevolezza, non alla disperazione: ci sollecita a guardare in faccia la verità della nostra corsa, silenziosa e rapida, verso la fine. In questo riconoscimento, se non c’è salvezza, c’è almeno dignità. E, forse, anche bellezza.