Tra i versi più celebri del De Rerum Natura, opera monumentale di Tito Lucrezio Caro, si trovano queste parole:
“È dolce, quando i venti sconvolgono la distesa nell’ampio mare,
guardare dalla riva il faticoso travaglio di un altro;
non perché sia fonte di gioia o di piacere il fatto che uno sia afflitto,
ma perché è bello vedere da quali mali tu sia libero.”
Si tratta di un passo che, a una lettura superficiale, potrebbe essere interpretato come un elogio dell’egoismo o dell’indifferenza di fronte alle difficoltà altrui. Eppure, entrando più a fondo nel pensiero di Lucrezio e nel contesto dell’epicureismo a cui egli si ispira, emerge un significato molto più profondo, legato alla condizione umana, alla percezione della sofferenza e alla ricerca della serenità.
Lucrezio: l’avvento della razionalità
L’immagine del mare agitato, con le onde scosse dal vento, è una delle più antiche e potenti metafore dell’esistenza. Fin dall’antichità, la vita dell’uomo è stata paragonata a un viaggio per mare, esposto ai capricci della fortuna e della natura. Guardare dalla riva chi lotta tra i flutti significa collocarsi in una posizione di sicurezza, in un luogo da cui il pericolo è osservabile ma non direttamente minaccioso.
Lucrezio, con questa immagine, non intende incitare alla schadenfreude, al piacere maligno per la sofferenza altrui, bensì sottolineare quanto sia naturale provare sollievo nel riconoscere che una determinata disgrazia non ci ha toccati. La gioia nasce non dal dolore dell’altro, ma dalla consapevolezza della propria salvezza.
Il distacco epicureo
Per comprendere appieno il significato di questi versi, bisogna collocarli all’interno della filosofia epicurea, che costituisce la trama di fondo del De Rerum Natura. Epicuro e i suoi seguaci sostenevano che la felicità si raggiunge non accumulando ricchezze o onori, ma liberandosi dalle paure inutili e imparando a coltivare il piacere stabile, inteso come assenza di dolore e turbamento.
Osservare dall’esterno il travaglio degli altri diventa allora una metafora della condizione del saggio epicureo, che riesce a mantenersi distante dalle passioni tumultuose e dagli affanni del mondo. Chi vive secondo ragione e misura non è scosso dalla tempesta della vita sociale e politica, ma si pone in disparte, in una sorta di “giardino” interiore, da cui guarda con distacco gli affanni di chi è immerso nella lotta quotidiana.
L’ambiguità del sollievo
Tuttavia, non si può negare che nel passo di Lucrezio ci sia anche una certa ambiguità. Perché la dolcezza dell’essere liberi da un male si accompagna inevitabilmente alla visione del male altrui. È difficile stabilire un confine netto tra il semplice sollievo personale e una sottile, seppur involontaria, compiacenza.
Proprio in questa ambiguità sta la forza del verso: esso non descrive un ideale morale, ma fotografa un’esperienza autentica dell’animo umano. A chi non è mai accaduto, vedendo una disgrazia, di pensare con un brivido: “Avrebbe potuto capitare a me”? Questo pensiero non nasce dalla cattiveria, ma dal riconoscimento della fragilità della vita e dal sollievo di esserne, almeno per il momento, esentati.
La lezione universale
I versi di Lucrezio ci ricordano che gran parte della felicità consiste non tanto nel possedere qualcosa di straordinario, quanto nel non essere colpiti da certi mali. La serenità si fonda sulla consapevolezza dei limiti, sulla gratitudine per ciò da cui si è scampati.
In questo senso, la riflessione è ancora attualissima. In un mondo attraversato da crisi economiche, conflitti, pandemie, disastri ambientali, la percezione del pericolo altrui spesso suscita in noi una reazione mista: compassione, certo, ma anche sollievo per la nostra relativa sicurezza. Lucrezio ci invita a riconoscere questa dinamica senza ipocrisia, e a trasformare quel sollievo in un’occasione di consapevolezza: non siamo padroni del nostro destino, ma possiamo imparare a vivere con maggiore distacco dalle paure, a godere della quiete quando essa ci è concessa.
Una visione che non esclude la solidarietà
È importante però distinguere: il distacco epicureo non è disprezzo per gli altri. Lucrezio non ci dice che dobbiamo ignorare la sofferenza altrui, ma che possiamo guardarla senza esserne travolti. Questo atteggiamento non annulla la possibilità della solidarietà; anzi, solo chi non è in preda al panico o all’angoscia può realmente offrire aiuto.
La riva da cui il saggio osserva non è un luogo di fuga, ma un punto stabile da cui è possibile agire con lucidità. In altre parole, la consapevolezza della propria salvezza non deve generare indifferenza, bensì una maggiore capacità di riconoscere la vulnerabilità universale e, quindi, una più autentica compassione.
Il passo del De Rerum Natura ci consegna una riflessione intramontabile sulla natura umana. È dolce sentirsi al sicuro quando altri affrontano la tempesta, non per il loro dolore, ma perché il confronto ci ricorda quanto siamo esposti ai pericoli e quanto sia preziosa la serenità di cui godiamo.
Lucrezio ci invita così a riconoscere la nostra fragilità, a coltivare la gratitudine per i momenti di quiete e a mantenere il distacco dalle passioni e dalle paure che agitano il mare della vita. La vera dolcezza non sta nell’egoismo, ma nella consapevolezza: vedere i mali da cui siamo liberi ci insegna a vivere con maggiore misura, equilibrio e serenità.