Sei qui: Home » Frasi » I versi di John Milton sull’amore che può salvarci

I versi di John Milton sull’amore che può salvarci

Leggiamo questi elegiaci versi dello scrittore inglese John Milton, in cui il poeta enuncia la sua condizione di innamorato salvato dall'amore.

In questi versi John Milton eleva una dichiarazione di poetica e, insieme, una resistenza dell’anima. È la voce di un poeta anziano, ormai cieco, che canta in mezzo alla rovina. Ma la sua è una voce «ancora intatta», immune dalla corruzione del tempo e della realtà, grazie alla visita di Urania, la musa celeste, simbolo dell’ispirazione e della verità eterna. È qui che si gioca il vero significato di questi versi: nella possibilità della poesia di sopravvivere ai giorni malvagi, nell’atto eroico del canto che resiste all’oscurità del mondo.

«…con maggior certezza
canto con voce mortale ancora intatta, non rauca, non muta,
sebbene in giorni malvagi caduto, sebbene
caduto in giorni malvagi, e fra malvagie lingue;
circondato da molti pericoli, in buio e solitudine,
e tuttavia non solo se [tu, Urania] vieni a visitare
i miei sogni notturni…»

John Milton e i “giorni malvagi”

John Milton scrive negli anni successivi alla Restaurazione della monarchia inglese (1660), un momento storico che per lui fu devastante. Fervente repubblicano, aveva sostenuto Oliver Cromwell e il Commonwealth. Con il ritorno al trono di Carlo II, Milton cadde in disgrazia: fu imprigionato per breve tempo, le sue opere politiche messe al bando, la sua libertà minacciata. A tutto questo si aggiunse la cecità, che lo colpì nel 1652. Proprio in questa condizione estrema — fisica, politica, spirituale — nacque il suo capolavoro.

I “giorni malvagi” sono dunque reali e storici: rappresentano un tempo di oppressione, di tradimento degli ideali, di solitudine. Ma sono anche simbolici: ogni tempo in cui la verità viene calpestata, ogni epoca in cui il potere schiaccia la voce libera dello spirito, può essere detto “malvagio”. Ed è in questi tempi che la poesia diventa atto di resistenza.

La voce del poeta: non rauca, non muta

Milton dichiara con forza che la sua voce, pur immersa nell’ombra, è ancora «non rauca, non muta». Nonostante la cecità, nonostante il silenzio che lo circonda, il poeta continua a cantare. Qui il canto assume un significato profondo: non è semplice produzione artistica, ma testimonianza esistenziale. È la dichiarazione che, finché la voce resta fedele a sé stessa, alla sua vocazione profonda, nessuna condizione esterna può zittirla.

In un’epoca come la nostra, dominata da rumori assordanti, dalla moltiplicazione delle parole vuote, dall’immagine che sovrasta la parola, questo richiamo alla voce vera, alla parola che nasce dalla solitudine e dalla verità, è quanto mai urgente. Milton ci ricorda che esiste una voce più profonda, che resiste alla censura, alla sconfitta, perfino alla malattia e alla morte.

Urania, la Musa della conoscenza celeste

La presenza di Urania, musa dell’astronomia ma anche della poesia ispirata dalla conoscenza divina, è fondamentale. In Paradise Lost, Milton si rivolge a lei non solo per ricevere ispirazione, ma come a una guida spirituale. Non è la musa dell’amore o dell’arte per l’arte, ma della verità. Quando Urania visita i sogni del poeta, essa gli concede non solo parole, ma visione. Nonostante la cecità fisica, è grazie a lei che Milton può “vedere” e raccontare il Paradiso perduto, le battaglie angeliche, il destino dell’uomo.

Questa ispirazione notturna, questo sogno visitato dalla divinità, richiama il concetto platonico secondo cui la verità non si trova nell’esteriorità, ma in una visione interiore. Urania rappresenta quindi anche il legame con il divino, con quella dimensione dell’esistenza che resta accessibile solo a chi ha imparato a vedere con l’anima.

Buio e solitudine come condizioni della creazione

John Milton non nega le tenebre. Non dice che la poesia nasce nonostante il buio, ma attraverso il buio. La sua voce non è disincarnata, non è illusione, ma carne ferita che canta. Solitudine, pericolo, malvagità non sono soltanto ostacoli, ma diventano il luogo stesso della creazione. La grandezza del poeta non sta nel fuggire il dolore, ma nel trasformarlo in canto.

In questo, John  Milton si pone nella scia di Dante, a cui spesso viene paragonato. Entrambi affrontano un viaggio attraverso l’oscurità per raggiungere una verità superiore. Entrambi scrivono opere totali, che vogliono raccogliere il destino dell’uomo, del mondo, di Dio. Ma mentre Dante ha una guida visibile — Virgilio prima, Beatrice poi — Milton ha solo Urania e la sua voce interiore.

Una lezione per il nostro tempo

Oggi più che mai, in un mondo che spesso premia la superficialità e condanna l’introspezione, John Milton ci invita a riscoprire il valore del canto solitario, della voce autentica che nasce nel silenzio. Non c’è vera arte che non attraversi il buio; non c’è vera ispirazione che non contempli l’umano nella sua interezza, luci e ombre, cadute e risalite.

I suoi versi ci ricordano che anche nei giorni peggiori, anche quando le “malvagie lingue” sembrano aver vinto, c’è sempre una possibilità di canto. E che il compito più alto del poeta — e forse di ogni essere umano — è custodire la propria voce, non renderla muta né rauca, ma offrirla come ponte tra il dolore e la speranza, tra la caduta e la luce.

© Riproduzione Riservata