I versi sulla furia e la forza di voler vivere la vita

20 Luglio 2025

Leggiamo assieme questi versi di Chandra Livia Candiani pieni di forza, di furia vitale che ci spingono a vivere attivamente la nostra vita.

I versi sulla furia e la forza di voler vivere la vita

La poesia di Chandra Livia Candiani si muove sul confine tra fragilità e potenza, tra il sussurro e il grido, tra l’infanzia e l’età adulta. I versi  appartengono a una poetica che non teme il trauma, ma lo attraversa. In questo breve componimento si condensano tensioni esistenziali e spirituali, tracce di dolore e un’esplosione di vita che nasce proprio dallo schianto.

«La furia d’esser viva
nella notte
sotto la polvere dei crolli:
sono in frammenti
tutti vivi,
c’è un urlante
silenzio bambino
ha i graffi
libera tutti»

La furia vitale nei versi di Chandra Livia Candiani

La poesia si apre con una dichiarazione potente: “La furia d’esser viva”. Non è un’asserzione placida, né un riconoscimento tranquillo dell’esistenza. La parola “furia” è centrale: essa evoca qualcosa di istintivo, disordinato, persino selvaggio. Vivere non è qui una condizione neutra o lineare, ma una spinta travolgente che si afferma nonostante tutto — anzi, forse proprio attraverso lo scontro con la notte, con la distruzione, con la paura.

Questa “furia” si colloca “nella notte”, uno spazio di oscurità e mistero. La notte è spesso associata al subconscio, alla solitudine, al lutto, ma anche alla possibilità della visione interiore. In questo caso, la notte è lo scenario in cui la vita si impone con maggiore veemenza, forse perché è lì che si manifestano le sue condizioni limite.

I crolli e i frammenti: immagini della rovina

L’espressione “sotto la polvere dei crolli” richiama un paesaggio post-traumatico. Può trattarsi di crolli reali — quelli di una casa, di una città, di un mondo — ma anche interiori: fratture psicologiche, emotive, esistenziali. La “polvere” ne è il residuo, la prova tangibile di un evento che ha lasciato rovine. Eppure, sotto quella polvere, non troviamo morte, ma qualcosa di sorprendente: “sono in frammenti / tutti vivi”.

La vita qui non è interezza, ma molteplicità di pezzi rotti che, però, non sono inerti. Sono frammenti che conservano energia vitale. Candiani sembra dirci che anche la scomposizione dell’io, la perdita di un’unità, non coincide con la fine. Al contrario, esiste una vitalità anche nello spezzarsi. In questa immagine c’è un’eco della poetica di Emily Dickinson, ma anche della fragilità densa di senso propria di Paul Celan.

Il “silenzio urlante”: un ossimoro radicale

Poi la voce poetica afferma: “c’è un urlante / silenzio bambino”. Qui si realizza uno degli ossimori più intensi dell’intera poesia. L’urlo e il silenzio non sono in contraddizione: coesistono. È un silenzio che contiene un’urgenza inespressa, un dolore che non ha ancora trovato le parole per manifestarsi. Ma è anche un silenzio “bambino”, che richiama l’infanzia, la vulnerabilità, la capacità di sentire tutto intensamente senza mediazioni.

Il “silenzio bambino” è forse il cuore emotivo della poesia: rappresenta quella parte dell’essere umano che, anche dopo i crolli, resta aperta, percettiva, incontaminata. È ciò che non si è del tutto corrotto, ciò che mantiene il contatto con una forma di autenticità profonda. In questa immagine risuona la poetica dell’ascolto che è cara a Candiani: il silenzio non come vuoto, ma come spazio in cui tutto può accadere, anche la guarigione.

I graffi e la liberazione

Il verso “ha i graffi” introduce un’altra immagine apparentemente violenta. Ma questi graffi non sono solo ferite: sono anche segni di passaggio, incisioni sulla pelle dell’esperienza. Come spesso accade nella poesia di Candiani, il dolore non è negato né sublimato: è accolto come parte integrante del percorso. Ma l’ultima dichiarazione — “libera tutti” — apre a una prospettiva liberatoria.

Chi libera? Il silenzio bambino? I graffi? Forse è la loro combinazione a generare un processo di trasformazione. Candiani suggerisce che solo toccando il fondo, solo restando dentro la notte, dentro la polvere, tra i frammenti, possiamo accedere a una libertà profonda. Una libertà che non cancella le ferite, ma le attraversa. I graffi diventano così l’esperienza che rende possibile la consapevolezza, e la consapevolezza rende possibile la liberazione.

Una poetica della vulnerabilità

Questo breve ma densissimo testo si inserisce in una poetica che ha fatto della vulnerabilità il suo centro etico ed estetico. Candiani non scrive per costruire castelli teorici o abbellire il linguaggio; scrive per dire la verità del vivere, con le sue contraddizioni, i suoi dolori, i suoi strappi. Il linguaggio poetico si fa dunque strumento di ascolto, di connessione, di resistenza. Anche nella frattura, anche nel silenzio, pulsa qualcosa che ci riguarda tutti: il desiderio ostinato di continuare a essere vivi.

Nei versi di Chandra Livia Candiani la poesia non consola, ma rivela. Rivela che la vita, anche quando si manifesta come “furia”, è un dono. Che i crolli non sono la fine, ma passaggi. Che dentro il silenzio, soprattutto quello dell’infanzia ferita, si può trovare un’urgenza che grida. E che quei graffi, se accettati e compresi, possono davvero liberarci. Candiani ci invita a restare con le cose rotte, a non voltare le spalle alla nostra parte fragile: perché è lì, nella crepa, che entra la luce della consapevolezza.

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