I versi d’amore di Guillaume Apollinaire, grande poeta francese

31 Luglio 2025

Leggiamo i versi scritti dalla spesso sagace e pungente penna di Guillaume Apollinaire che, però, sa essere anche soave e appassionata.

I versi d'amore di Guillaume Apollinaire, grande poeta francese

Si presentano così i versi di Guillaume Apollinaire come un’esplorazione lirica dell’amore, della memoria e della percezione, in cui il linguaggio poetico si fa immagine, la metafora si fonde con il sogno, e la parola tenta di afferrare l’indicibile. La poesia di Apollinaire, esponente tra i più importanti dell’avanguardia poetica francese del primo Novecento, è fortemente legata alla modernità e al simbolismo, ma in questo testo si avverte un’eco quasi surrealista ante litteram, una vibrazione emotiva che si articola per immagini potenti e non sempre riconducibili a un significato univoco.

Il tuo sorriso m’attira come
M’attirerebbe un fiore
Fotografia sei il fungo bruno
Di quella foresta
Ch’è la sua bellezza
I bianchi vi accendono
Un chiaro di luna
In un giardino quieto

Guillaume Apollinaire e un chiaro di luna

La poesia si apre con un’immagine di immediata delicatezza:

“Il tuo sorriso m’attira come / M’attirerebbe un fiore.”


Il sorriso viene accostato a un fiore non solo per la sua grazia visiva, ma per il suo potere d’attrazione istintiva: Apollinaire non ci parla di un desiderio razionale o ponderato, ma di un movimento dell’anima simile a quello che può provocare il profumo o la visione inattesa di una rosa. Il fiore è simbolo di fragilità, ma anche di vita, di bellezza effimera, di seduzione silenziosa. Questo paragone posiziona immediatamente il soggetto della poesia — la persona ritratta — in uno spazio di fascinazione quasi naturale, vegetale, ancestrale.

La fotografia e il fungo bruno

L’immagine successiva, molto più enigmatica, è:

“Fotografia sei il fungo bruno / Di quella foresta.”
Qui Apollinaire compie un’operazione poetica sorprendente: paragona la persona amata, o il suo ritratto fotografico, a un fungo bruno all’interno di una foresta. È una scelta inaspettata, perfino disturbante se la si legge in senso letterale, ma altamente evocativa se la si considera sotto la lente del simbolismo.

Il fungo, organismo che nasce e si sviluppa in condizioni di umidità e oscurità, può suggerire qualcosa di intimo, nascosto, spontaneo, ma anche qualcosa di marginale e misterioso. In quanto “fungo bruno”, la fotografia diventa parte integrante della foresta, ovvero di un paesaggio complesso e ricco di vita, ma anche potenzialmente inquietante. La fotografia, come il fungo, coglie un momento e lo conserva, ma è anche testimonianza silenziosa, spuntata dal tempo e dal caso.

La foresta come bellezza

Apollinaire prosegue dicendo:

“Ch’è la sua bellezza.”
Questa frase sembra chiarire che non è la fotografia in sé a essere bella, né il fungo, ma la foresta stessa, intesa come luogo della bellezza globale, dell’insieme, del mistero. L’amata, quindi, non è solo oggetto estetico, ma parte essenziale di un paesaggio più vasto, dove ogni elemento contribuisce all’armonia totale. È un modo originale e complesso per descrivere la persona amata: non come protagonista solitaria, ma come componente organica di un sistema poetico, naturale e affettivo.

Il chiarore lunare

Infine, l’ultima strofa suggerisce una transizione dal visivo al luminoso, dallo statico al poetico puro:

“I bianchi vi accendono / Un chiaro di luna / In un giardino quieto.”
Il bianco, in poesia, è spesso simbolo di purezza, di luce, ma anche di assenza, di silenzio. Qui i bianchi “accendono” un chiaro di luna, creando una sorta di intermittenza visiva ed emotiva. Il giardino quieto è l’ambiente ultimo di questa poesia, spazio mentale e onirico dove si compie l’epifania luminosa del ricordo o del desiderio.

La luce lunare ha una natura riflessa, malinconica, trasfigurante: ciò che illumina non è mai completamente visibile. Così è anche la figura amata di questa poesia: presente attraverso la fotografia, evocata dal sorriso, ma inafferrabile nella sua essenza.

Un’estetica della memoria e del desiderio

Tutto il componimento si può leggere come una meditazione sulla memoria amorosa, dove la fotografia rappresenta la persistenza visiva di ciò che è ormai perduto o lontano. Il poeta non guarda la persona amata direttamente, ma la contempla attraverso una fotografia, cioè un oggetto che fissa il tempo, ma anche lo congela. Questo oggetto, lungi dall’essere un semplice ritratto, si carica di metafore: fiore, fungo, foresta, chiaro di luna. In ognuna di esse, la donna (o l’uomo) amata è al tempo stesso presenza e assenza, elemento della natura e frammento d’immaginazione, figura viva e spettro poetico.

L’approccio di Guillaume Apollinaire al sentimento amoroso è quindi intriso di quella che potremmo definire una sensualità visionaria: il corpo, i gesti, il sorriso non sono descritti con realismo, ma sono trasfigurati in immagini che sembrano uscite da un sogno. La poesia non si preoccupa della coerenza logica, ma del potere evocativo.

Questi versi, come gran parte della produzione di Guillaume Apollinaire, si muovono in bilico tra simbolismo e avanguardia, tra lirismo e sperimentazione. Non c’è una sola chiave interpretativa: il testo resta volutamente ambiguo, aperto, immerso in un’atmosfera rarefatta dove la figura amata si fa natura, luce, paesaggio. Il poeta si lascia guidare non dalla narrazione, ma dall’emozione visiva, facendo della poesia un’opera d’arte sensoriale, più vicina alla pittura impressionista che alla prosa logica.
Nel sorriso che attira come un fiore, nella fotografia che è un fungo nella foresta, nel chiaro di luna acceso dal bianco, Guillaume Apollinaire ci mostra l’amore come un mistero incantato e indefinibile, che vive dentro la parola poetica.

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