Nel brano tratto da Il Gattopardo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa offre una delle immagini più struggenti e penetranti dell’amore giovane, intrecciata indissolubilmente al disincanto dell’età adulta e alla consapevolezza tragica della finitezza. Le parole evocano la danza di una giovane coppia che, inebriata dal sentimento e dall’apparenza della felicità, ignora le insidie del destino e l’incombere della decadenza. Il loro è un passo a due sospeso nel tempo, ma già scritto nel copione della vita con la cripta e il veleno, metafore dirette e crude del destino che incombe e dell’illusione spezzata.
Essi offrivano lo spettacolo patetico più di ogni altro, quello di due giovanissimi innamorati che ballano insieme, ciechi ai difetti reciproci, sordi agli ammonimenti del destino, illusi che tutto il cammino della vita sarà liscio come il pavimento del salone, attori ignari cui un regista fa recitare la parte di Giulietta e quella di Romeo nascondendo la cripta e il veleno, di già previsti nel copione.
Né l’uno né l’altro erano buoni, ciascuno pieno di calcoli, gonfio di mire segrete; ma entrambi erano cari e commoventi, mentre le loro non limpide ma ingenue ambizioni erano obliterate dalle parole di giocosa tenerezza che lui le mormorava all’orecchio, dal profumo dei capelli di lei, dalla reciproca stretta di quei loro corpi destinati a morire.
L’illusione della giovinezza e la messa in scena del tempo
L’immagine iniziale – quella di “due giovanissimi innamorati che ballano insieme” – è di rara delicatezza. Giuseppe Tomasi di Lampedusa li descrive come “ciechi ai difetti reciproci”, “sordi agli ammonimenti del destino”, illusi, dunque, che “tutto il cammino della vita sarà liscio come il pavimento del salone”. Qui la metafora della danza diventa potente rappresentazione della vita, della sua apparente fluidità nei primi anni, quando si crede che l’amore, la bellezza e la fortuna bastino a costruire un’esistenza senza inciampi.
Tuttavia, questa scena idilliaca è subito incrinata da una consapevolezza più profonda. L’autore li paragona ad “attori ignari”, resi inconsapevoli da un “regista” che ha già deciso per loro un destino tragico: come Giulietta e Romeo, sono figure che si muovono in una trama il cui epilogo è stato già scritto, sebbene ancora invisibile. L’immagine della “cripta” e del “veleno” richiama esplicitamente la tragedia shakespeariana, dove la passione giovanile si scontra con le forze della morte, del conflitto e della fine. Questo riferimento letterario non è solo ornamentale, ma affonda le radici nella concezione pessimistica dell’autore: il tempo e il destino sono entità sovrane, e la volontà individuale ne è irrimediabilmente succube.
Una tenerezza che non cancella l’ambiguità
Ciò che colpisce in questa riflessione è la lucidità con cui Tomasi di Lampedusa mette a nudo non solo l’illusione amorosa, ma anche la moralità ambigua dei personaggi: “né l’uno né l’altro erano buoni”, scrive con asciutta schiettezza. “Ciascuno pieno di calcoli, gonfio di mire segrete”; insomma, non si tratta di eroi romantici, ma di giovani realistici, mossi da ambizioni e da strategie. Eppure, nonostante ciò, “entrambi erano cari e commoventi”.
In queste parole, che sembrano contraddirsi, sta il cuore della visione dell’autore: ciò che rende quei giovani toccanti non è la purezza morale, ma la fragilità umana. La loro dolcezza non è nel candore, ma nella condizione condivisa di esseri inconsapevoli, ancora immersi in un sogno prima della disillusione. Anche se mossi da fini pratici, anche se la loro relazione è imperfetta, ciò che si salva — e che commuove profondamente l’osservatore — è il modo in cui si stringono, si parlano sottovoce, si abbandonano all’illusione. C’è una grazia struggente, e un’amara compassione, nello sguardo che l’autore rivolge loro.
Il tempo e la morte: una prospettiva lampedusiana
La frase conclusiva del brano è tra le più intense e definitive: “la reciproca stretta di quei loro corpi destinati a morire”. In questa chiusa risuona tutto il peso della visione filosofica di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: l’amore, come ogni esperienza umana, è fragile, transitoria, condannata dalla condizione mortale. Non vi è scampo, nemmeno nella bellezza o nella passione. I corpi sono già segnati dalla morte, anche quando danzano, anche quando si cercano.
Nel romanzo, questo tipo di riflessione è centrale. Il Gattopardo non è solo il racconto della decadenza di una classe sociale, quella aristocratica siciliana del XIX secolo, ma anche la meditazione su un’intera condizione umana: la fugacità del potere, l’inutilità della ribellione al mutamento, la costante erosione del tempo su ogni forma di bellezza o ordine.
La commozione come risposta estetica
Ciò che salva i due giovani personaggi descritti non è la loro etica né il loro destino, ma la percezione estetica che di loro si ha. Sono “commoventi” perché incarnano un momento, un gesto, una visione del mondo in cui ancora si crede di potere sfuggire al tragico. L’osservatore — e con lui il lettore — è mosso non da giudizio, ma da pietà e da malinconia: riconosce l’inganno, ma non può impedire che esso sia bello, per quanto effimero.
La danza dell’effimero
La citazione di Giuseppe Tomasi di Lampedusa ci offre un ritratto universale e tragico dell’amore, della giovinezza e del desiderio. È la scena di un ballo che affascina e strazia, perché sappiamo, come lettori, ciò che i protagonisti ignorano: che ogni passo di danza, ogni sussurro, ogni profumo è già contaminato dalla fine. Eppure, è proprio questa danza effimera — con la sua bellezza, la sua illusione, la sua fragilità — a rendere l’esistenza degna di essere vissuta e raccontata.
In questo senso, Il Gattopardo non è solo un romanzo storico, ma una lunga, elegante elegia sull’illusione e sulla consapevolezza, sulla tenerezza che si conserva anche quando si è persa l’innocenza, e sulla forza sottile con cui la letteratura può toccare le corde più profonde dell’animo umano.