I versi di Giovanni Testori sull’amore verso la città natale

18 Dicembre 2025

Leggiamo assieme questi dolce-amari versi con cui Giovanni Testori si appella alla sua città tanto amata e tanto defraudata.

I versi di Giovanni Testori sull'amore verso la città natale

Nei versi del componimento XIII di Giovanni Testori, la città non è un semplice sfondo né un’entità astratta: è un corpo vivo, sofferente, materno e tragico, che ingloba in sé storia, tempo, memoria e destino collettivo. Fin dall’incipit — «Mia città, / mia dolente patria» — il tono si impone come intensamente lirico e drammatico: Testori parla alla città come a un essere amato e ferito, un luogo che non è solo spazio geografico ma identità profonda, radice emotiva e morale.

Mia città,
mia dolente patria
che ti stendi assembrata
nelle nubi della notte;
mia cupa madre di cemento
che ti sdrai nei letti, giù, dell’ombra,
nell’infinita ombra delle case
diverse una per una,
unite tutte nella gioia mesta
della fine d’un giorno
che s’è chiuso
e mai sarà più eguale,
come ogni cosa
e te che pur trionfi
da secoli
sulle scabre rovine del furente tuo passato,
sull’incerta e cupa volontà
del tuo presente;

Giovanni Testori e la sua Milano

La ripetizione dell’aggettivo possessivo mia stabilisce subito un rapporto di appartenenza viscerale. La città è patria, ma non nel senso retorico o celebrativo: è una patria dolente, segnata dal dolore, dalla fatica di esistere e di durare nel tempo. In Giovanni Testori, l’amore per il luogo natale — che si può riconoscere nella Milano industriale e popolare — non è mai pacificato; è un amore conflittuale, intriso di pietas e di accusa, di riconoscimento e di sofferenza.

La città «si stende assembrata / nelle nubi della notte»: l’immagine è potentemente visiva. L’assembramento richiama la folla, la densità umana, ma anche una condizione di compressione, quasi di oppressione. La notte avvolge tutto in una dimensione sospesa, irreale, in cui le forme si confondono e la città sembra dilatarsi, diventare massa indistinta. Non c’è luce salvifica: la notte testoriana non è contemplativa, ma carica di peso, di silenzio, di inquietudine.

Ancora più forte è la personificazione materna: «mia cupa madre di cemento». Qui Testori fonde due registri apparentemente inconciliabili: quello affettivo della madre e quello freddo, industriale del cemento. La città è madre perché genera, accoglie, contiene; ma è una madre cupa, dura, segnata dalla modernità e dalla costruzione artificiale. Il cemento diventa simbolo di una maternità non dolce, ma necessaria, aspra, quasi inospitale. È una madre che non consola, ma che impone la vita nella sua forma più cruda.

L’immagine dei «letti, giù, dell’ombra» in cui la città «si sdraia» accentua la dimensione notturna e funebre del testo. Le case diventano letti, luoghi di riposo ma anche di abbandono, di stanchezza esistenziale. L’ombra è infinita, pervasiva: «nell’infinita ombra delle case / diverse una per una». Qui Giovanni Testori introduce uno dei nuclei centrali della sua poetica: la tensione tra individuo e collettività. Le case sono tutte diverse, come diverse sono le vite che le abitano; eppure sono unite, accomunate da una stessa condizione.

Questa unione non avviene nella felicità piena, ma nella «gioia mesta / della fine d’un giorno». L’ossimoro è rivelatore: gioia e mestizia convivono. La fine del giorno porta sollievo, ma anche consapevolezza del tempo che passa, della perdita irreversibile. Ogni giorno che si chiude «mai sarà più eguale»: il tempo, in Testori, non è ciclico né rassicurante, ma irreparabile. Ogni istante è unico e perduto per sempre, come «ogni cosa».

In questo senso, la città diventa il luogo in cui il tempo storico e il tempo esistenziale coincidono. Essa «pur trionfi / da secoli», sopravvive, si impone, resiste. Ma il suo trionfo non è luminoso: è costruito «sulle scabre rovine del furente tuo passato». La storia urbana è una stratificazione di violenze, distruzioni, furori. Nulla è cancellato davvero; tutto resta come rovina incorporata nel presente.

L’amore verso la propria città

Il presente stesso è descritto come «incerto e cupo», animato da una «volontà» fragile, non risolta. La città vive, ma senza certezza; agisce, ma senza chiarezza di direzione. Qui Testori sembra alludere non solo alla crisi morale e sociale del Novecento, ma a una condizione permanente dell’umano: l’impossibilità di un fondamento stabile, la tensione continua tra costruzione e rovina.

Questi versi mostrano come la città, per Giovanni Testori, sia il luogo della massima concentrazione del tragico. Non c’è idealizzazione dell’urbano, né nostalgia consolatoria: c’è uno sguardo che ama proprio perché vede fino in fondo la ferita. La città è madre, ma una madre che espone i figli al dolore del vivere; è patria, ma una patria che non protegge, bensì interroga e mette alla prova.

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