I versi di Giosuè Carducci su un bel sogno d’estate

26 Luglio 2025

Leggiamo assieme questi versi tratti dalla prima parte della poesia "Sogno d'estate", scritta all'inizio di luglio 1880 da Giosuè Carducci.

I versi di Giosuè Carducci su un bel sogno d'estate

I versi di Giosuè Carducci tratti dalla poesia Sogno d’estate ci introducono in uno dei momenti più delicati e struggenti della lirica carducciana: il ritorno, in sogno, a un paesaggio dell’anima, fatto di ricordi d’infanzia e di giovinezza, di nostalgia e di rivelazione.

“Sognai, placide cose de’ miei novelli anni sognai.
Non piú libri: la stanza da ’l sole di luglio affocata,
rintronata da i carri rotolanti su ’l ciottolato
de la città, slargossi: sorgeanmi intorno i miei colli,
cari selvaggi colli che il giovane april rifioria.”

Questi versi, scritti nel luglio del 1880, fanno parte dell’idillio Sogno d’estate (inizialmente pubblicato con il titolo Sonno d’estate sul “Fanfulla della domenica”), poi incluso nella raccolta Nuove odi barbare del 1882. Sono esametri in serie continua, che si articolano in una struttura metrica molto libera — per Carducci una scelta consapevole e dichiarata: “Ormai io mi lascio andare a scrivere questi versi a orecchio; e non ho pazienza di pesarli bene” scriveva infatti all’amico Giuseppe Chiarini. È una confessione che dice molto dello spirito di questa poesia: non più rigore classico, ma abbandono lirico, quasi musicale, dove la memoria e la fantasia si fondono nella materia viva del verso.

Giosuè Carducci e il suo sogno d’estate

Il sogno, per Carducci, non è evasione ma un mezzo per far affiorare l’essenziale. Nella calura estiva della stanza cittadina — resa afosa dal sole e percossa dai carri sul selciato — la coscienza si allenta, e la mente del poeta si libera, allargandosi improvvisamente fino a contenere un paesaggio altro, interiore e reale al tempo stesso: i colli dell’infanzia, “cari selvaggi colli che il giovane april rifioria.” Si tratta del paesaggio della Maremma, della campagna toscana amata e perduta, ma mai dimenticata.

Il contrasto tra la stanza “affocata” e “rintronata” e la visione dei colli “placidi” è netto: da un lato la città moderna, opprimente, meccanica; dall’altro, la natura libera, silenziosa, rigenerata dalla primavera. Il sogno ha dunque funzione palingenetica: ricrea il passato e lo rivive come eterno presente, sospendendo la realtà per attingere a una verità più profonda.

La metrica a servizio della visione

Carducci sperimenta in questi versi una metrica fluida e cangiante. La combinazione tra settenari e novenari, e le frequenti variazioni (come senari, quinari, decasillabi e ottonari), riflette il moto interiore del sogno, il suo andamento non lineare, fatto di apparizioni e dissolvenze. Il poeta non cerca la precisione formale della tradizione, ma si lascia guidare dall’“orecchio”, come egli stesso confessa. Il risultato è un tessuto sonoro che accompagna con dolcezza il movimento del pensiero e dell’immaginazione.

Enrico Nencioni, recensendo l’opera nel 1882, coglieva perfettamente questa qualità onirica e nostalgica, definendo la poesia “domestica” e accostandola ai sogni letterari di Jean Paul Richter e perfino a Coleridge, poeta dell’inconscio e del fantastico. L’accostamento è suggestivo: anche Carducci, come Coleridge, riesce a farci sognare con lui, portandoci in uno spazio-tempo sospeso, dove il passato diventa tangibile, e il presente si confonde con la memoria.

Il legame tra infanzia e eternità

Nei versi scelti, si avverte una tensione profonda tra il tempo e l’eternità. Il poeta sogna le “placide cose” della giovinezza, ma in realtà quel sogno è una forma di eternizzazione: i colli dell’infanzia non sono semplicemente ricordo, ma epifania. Il “giovane april” che rifiorisce quei colli li rende vivi non solo nel sogno, ma nel cuore stesso del poeta. È qui che memoria e immaginazione si alleano per creare qualcosa che resiste al tempo.

In questo senso, Sogno d’estate si collega a molte liriche della maturità carducciana, in cui il rapporto con la morte e la perdita si trasforma in una ricerca di continuità e di consolazione. Le figure delle “figliole giovinette” che compaiono nella seconda parte della poesia, come nota Nencioni, si affiancano ad altre presenze evanescenti, e costruiscono un ponte ideale tra presente e passato, tra vita e memoria, tra ciò che è stato e ciò che continua a vivere nella coscienza.

Natura, poesia e salvezza

La visione dei “cari selvaggi colli” non è soltanto nostalgia, ma anche forma di salvezza. In un mondo moderno sempre più caotico, fatto di città rumorose e vite affaticate, Giosuè Carducci oppone la forza rigenerante della natura, della semplicità, dell’armonia perduta. È una forma di classicismo rivisitato, in cui la natura non è più soltanto cornice, ma vero e proprio soggetto lirico e spirituale.

In Sogno d’estate, dunque, la poesia non è solo arte, ma anche terapia. Come nel sogno, essa permette di riscoprire ciò che conta davvero: le radici, gli affetti, le emozioni primordiali che non ci abbandonano. I colli dell’infanzia diventano emblema di un’età dell’oro, non tanto anagrafica quanto spirituale, che ciascuno di noi può ritrovare — almeno per un attimo — chiudendo gli occhi e lasciandosi portare via, come Giosuè Carducci, dal sogno e dalla poesia.

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