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Una frase (2004) del visionario Zygmunt Bauman sulla paura di rimanere soli

Scopri la frase del sociologo polacco Zygmunt Bauman sull'identità liquida che annulla l'introspezione permettendo di fuggire dalla solitudine individuale.

Siamo in una società e in un’epoca in costante connessione. Non c’è momento del nostro vivere in cui, stimolati dagli smartphone, schermi intelligenti e Smart TV possiamo avere un momento di riflessione individuale. Il sociologo Zygmunt Bauman aveva già teorizzato e condiviso questo pensiero donandoci una frase di grande verità.

L’introspezione è un’attività che sta scomparendo. Sempre più persone, quando si trovano a fronteggiare momenti di solitudine nella propria auto, per strada o alla cassa del supermercato, invece di raccogliere i pensieri controllano se ci sono messaggi sul cellulare per avere qualche brandello di evidenza che dimostri loro che qualcuno, da qualche parte, forse li vuole o ha bisogno di loro.

La frase è contenuta nel libro Intervista sulla identità, a cura di Benedetto Vecchi, edizione Laterza (2004).

Zygmunt Bauman di fatto mutua la frase dall'”educatore” Andy Hargreaves, altro grande intellettuale della nostra epoca, grande osservatore della cultura contemporanea,La crisi de membro della US National Academy of Education, professore all’Università di Ottawa in Canada e Ricercatore al Boston College.

Zygmunt Bauman ci spiega la nuova paura di rimanere soli

L’attuale società digitale ha mandato in crisi tutti i modelli sociologici che fino a centro anni fa erano la base assoluta dell’Identità individuale e collettiva. La famiglia, lo Stato, la Religione erano l’essenza che dava forma all’identità di ogni individuo e popolo. 

Questo processo ampiamente teorizzato da Bauman negli ultimi 20 anni si è amplificato a dismisura. L’identità di ogni individuo perde, spiega il sociologo polacco, i suoi ancoraggi sociali che la fanno apparire “naturale”, predeterminata, non negoziabile. 

L'”identificazione” diventa sempre più importante per quegli individui che cercano disperatamente un “noi” di cui entrare a far parte.

Oggi, spiega Zygmunt Bauman, individui e gruppi sociali, privati dei quadri di riferimento tradizionali, “cercano di trovare o fondare” comunità virtualità, gruppi mediati elettronicamente, fragili, “totalità virtuali” in cui è facile entrare e che è facile abbandonare.

Queste si pongono come un surrogato assai mediocre di quelle quelle forme di socialità solide che grazie a questa loro solidità vera o presunta potevano promettere quel rassicurante (benché ingannevole e fraudolento) “sentimento di un noi” che la navigazione su internet, e, in generale, le interazioni relazionali dei social network, non possono offrire.

Bauman avverte che stiamo perdendo la capacità di interagire spontaneamente con la gente reale. Le comunità virtuali non possono essere validi sostituti di una relazione reali, in cui ci si può guardare in faccia, in cui si può avere un vero con-tatto, si può avere un conversazione “umana”.

Queste comunità digitali, continua Zygmunt Bauman, non sono in grado di dare sostanza all’identità personale, la ragione primaria per cui le si cerca. Rendono semmai più difficile di quanto già non sia accordarsi con sé stessi.

Ed ecco che Bauman per rendere evidente il suo concetto fa sue le parole di Andy Hargreaves, secondo il quale 

negli aeroporti e in altri spazi pubblici gli individui col telefono cellulare e l’auricolare camminano qua e là, parlando ad alta voce da soli, come schizofrenici paranoici, incuranti di ciò che sta loro intorno. L’introspezione è un’attività che sta scomparendo. Sempre più persone, quando si trovano a fronteggiare momenti di solitudine nella propria auto, per strada o alla cassa del supermercato, invece di raccogliere i pensieri controllano se ci sono messaggi sul cellulare per avere qualche brandello di evidenza che dimostri loro che qualcuno, da qualche parte, forse li vuole o ha bisogno di loro. 

La paura di rimanere soli e la presunzione si essere insostituibili

Non abbiamo più tempo e voglia per vivere l’Introspezione. E come si avesse paura di rimanere soli, di non poter “condividere” ciò che le nostre diverse comunità virtuali in quel momento stanno “vivendo”. 

Bauman e Hargreaves lo spiegano molto bene. Ogni attimo in cui si potrebbe fare una riflessione utile alla propria esistenza, ci si attacca allo smartphone e si inizia a navigare. 

Stare a contatto con la realtà genera un senso di frustrazione, di smarrimento, di timore. Tutto ciò che è “vero” non soddisfa e limitato. C’è bisogno di montare nel flusso dei “bit” e controllare se è accaduto qualcosa. 

L’introspezione a cui fa riferimento il grande sociologo è un’attività di importanza assoluta. Permette di comprendere meglio sé stessi, le emozioni e  bisogni individuali.

Tramite l’introspezione si può acquisire una maggiore consapevolezza di come le nostre azioni e le nostre scelte possono condizionare la nostra vita.

Ma, questo non basta più, si pensa di non averne bisogno. Molte volte quello stato crea ansia, si ha il timore di vivere un vuoto rispetto al flusso tecnologico che invece sembra indicare ormai la vita. 

È vero seguendo sempre tutto il pensiero baumaniano che bisogna non aver paura di aprirsi ad un’impostazione “liquida” della vita e a trovare un’identità che tenga conto che le agenzie che offrivano controllo e stabilità sono andate in pensione. 

Ma, il pensiero liquido di Bauman ci avverte che bisogna non rinunciare a sé stessi, senza aver timore, di vivere gli altri senza essere notati. 

La “mancanza di una considerazione digitale” sembra il trauma più grande della nostra società. La geolocalizzazione di sé stessi attraverso la tecnologia web e social è diventata la nostra stabilità.

Essere consapevoli di essere sempre individuabili, rende la nuova umanità meno naufraga e più sopravvissuta.

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