Una frase di Hannah Arendt sulla relazione tra essere ed apparire

8 Giugno 2025

Leggiamo assieme questa frase di Hannah Arendt che ci chiarisce quale significato ha la parola "apparenza" in un mondo prettamente sensibile.

Una frase di Hannah Arendt sulla relazione tra essere ed apparire

La citazione di Hannah Arendt (14 ottobre 1906 – 4 dicembre 1975), tratta da “La vita della mente“, invita a una riflessione profonda sul significato dell’esistenza e sulla relazione tra ciò che è e ciò che appare. Attraverso una prosa densa e filosofica, Arendt suggerisce che il mondo in cui viviamo è strettamente legato alla percezione: ciò che esiste, esiste solo perché può essere visto, udito, toccato e compreso. Esploriamo il significato di queste parole, il loro impatto filosofico e il messaggio che Arendt trasmette sul nostro rapporto con il mondo e con gli altri.

Il mondo in cui gli uomini nascono contiene molte cose, naturali e artificiali, vive e morte, caduche ed eterne, che hanno tutte in comune il fatto di apparire, e sono quindi destinate ad essere viste, udite, toccate, gustate e odorate, a essere concepite da creature senzienti munite degli appropriati organi di senso. Nulla potrebbe apparire, la parola “apparenza” non avrebbe alcun senso, se non esistessero esseri ricettivi. In questo mondo, in cui facciamo ingresso apparendo da nessun luogo e dal quale scompariamo verso nessun luogo, Essere e Apparire coincidono.

Il mondo di Hannah Arendt come luogo di apparenza

Hannah Arendt descrive il mondo come un insieme di cose che condividono un elemento comune: l’apparire. Che si tratti di oggetti naturali, come un albero o un fiume, o di creazioni artificiali, come una cattedrale o un dipinto, tutto ciò che esiste nel mondo ha come caratteristica fondamentale il fatto di essere percepibile dai sensi.

La filosofa non si limita a una descrizione materiale, ma include anche gli esseri viventi. Ogni creatura, nel momento in cui entra nel mondo, lo fa attraverso l’apparenza: nascere significa emergere da un luogo sconosciuto (un “nessun luogo”) per diventare visibile agli altri. Analogamente, morire significa uscire dalla scena del mondo e scomparire in un altro “nessun luogo”. In questo ciclo di apparizione e scomparsa, Arendt intreccia il concetto di esistenza con quello di manifestazione: Essere e Apparire coincidono.

Arendt sottolinea che l’apparenza non avrebbe alcun significato senza esseri capaci di percepirla. La vista, l’udito, il tatto, il gusto e l’olfatto sono i mezzi attraverso cui le cose si manifestano e diventano reali per noi. In assenza di creature senzienti, il mondo sarebbe un luogo muto, privo di significato.

Questa affermazione ha profonde implicazioni filosofiche. Suggerisce che la realtà non è qualcosa di statico e oggettivo, ma una costruzione dinamica che dipende dal rapporto tra ciò che appare e chi lo percepisce. Questo concetto risuona con la tradizione fenomenologica, in cui il mondo è inteso come un orizzonte di esperienze che si rivelano attraverso l’interazione tra soggetto e oggetto.

Nella visione di Arendt, Essere e Apparire non sono due dimensioni separate, ma una realtà unica. Esistere significa necessariamente essere visibile, tangibile, percepibile. Questo pensiero sfida alcune tradizioni filosofiche che tendono a separare l’essenza di un’entità dalla sua manifestazione. Per esempio, Platone postulava che la realtà sensibile fosse solo un riflesso imperfetto delle idee, le vere realtà eterne e immutabili. Arendt, invece, afferma che non c’è Essere senza Apparire: il mondo è intrinsecamente legato alla sua manifestazione sensoriale.

Questa prospettiva ribadisce l’importanza del mondo concreto e delle relazioni che intrecciamo con esso. Il nostro essere al mondo non è un fatto isolato o astratto, ma una realtà vissuta, costruita attraverso il modo in cui vediamo e siamo visti, ascoltiamo e siamo ascoltati.

Il ruolo dell’uomo nel mondo dell’apparenza

Per Arendt, l’uomo occupa una posizione centrale in questo sistema di apparenza. Non solo percepiamo il mondo attraverso i nostri sensi, ma siamo anche parte di esso: siamo a nostra volta esseri che appaiono. La nostra presenza non è mai neutrale o passiva, ma contribuisce a definire il mondo stesso. Questo è particolarmente evidente nelle relazioni interpersonali, dove il nostro apparire agli altri determina la nostra identità e il nostro ruolo.

L’essere umano, quindi, non è solo spettatore del mondo, ma anche attore sulla scena dell’apparenza. Questo implica una responsabilità: il modo in cui ci presentiamo agli altri e interagiamo con ciò che ci circonda ha un impatto diretto sulla realtà che creiamo insieme.

Un altro tema chiave della riflessione di Arendt è la transitorietà dell’apparenza. Tutto ciò che esiste è destinato a scomparire, e il mondo stesso è in costante mutamento. Tuttavia, questa caducità non priva la vita di significato; al contrario, è proprio la consapevolezza della nostra temporaneità che dà valore alla nostra esistenza. Apparire significa essere parte di un ciclo più grande, un continuo alternarsi di presenza e assenza, di visibile e invisibile.

Allo stesso tempo, l’uomo è spinto dal desiderio di permanenza. Questo desiderio si manifesta nella creazione di opere d’arte, di conoscenza e di relazioni durature: tentativi di lasciare una traccia che sopravviva alla nostra scomparsa.

La dicotomia tra essere ed apparire

La riflessione di Hannah Arendt sull’intreccio tra Essere ed Apparire ci invita a riconsiderare il nostro rapporto con il mondo. Viviamo in un universo che esiste nella misura in cui è percepito, e la nostra esistenza si intreccia con quella degli altri attraverso l’apparenza. Essere presenti, nel senso più pieno del termine, significa non solo vivere, ma partecipare attivamente alla costruzione di un mondo comune.

Questa visione ci richiama a una maggiore consapevolezza: di noi stessi, degli altri e di ciò che ci circonda. Apparire non è semplicemente un fatto, ma un’opportunità di esprimere chi siamo e di riconoscere il valore dell’esistenza condivisa.

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