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Una frase Giosuè Carducci sull’importanza dei gesti d’affetto

Una celebre frase di Giosuè Carducci, tratta da una delle oltre seicento lettere che inviò a Carolina Cristofori Piva, celebra l'abbraccio e in generale i gesti d'affetto da rivolgere a chi si ama.

L’abbraccio è uno di quei gesti d’affetto per eccellenza che un tempo davamo per scontato e che, dopo che nel recente passato ci era stato privato, abbiamo iniziato ad apprezzare come mai prima. Una celebre frase di Giosuè Carducci, nato il 27 luglio 1835 e scomparso il 16 febbraio 1907, celebra questo e in generale i gesti d’affetto da rivolgere a chi si ama.

“Meglio sarebbe, amor mio, abbracciarci e carezzarci, quando possiamo”

Il valore dei gesti d’affetto

Gli abbracci e le carezze: conoscete gesti più teneri che ci si possa scambiare tra due persone che si amano? L’invito di Carducci è chiaro: quando possibile, è sempre bello scambiarsi dei gesti d’affetto, capaci non solo di trasmettere amore e tenerezza, ma soprattutto simbolici del fatto di volersi prendere cura dell’altro, di coccolarlo e custodirlo tra le proprie braccia.

Ecco, quindi, che l’invito a compiere questi gesti d’affetto citati dal poeta in questa sua frase andrebbero fatti propri e messi in pratica con le persone che amiamo, siano esse genitori, amici o il proprio partner.

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La lettera a Lidia

Questa frase è tratta da una delle oltre seicento lettere che Giosuè Carducci inviò a Carolina Cristofori Piva, ribattezzata poeticamente Lidia o “dolce pantera”. Giovane ventiseienne, sposa di un colonnello ex garibaldino e madre di un figlio, Lidia era un’aspirante poetessa che si era invaghita del sommo poeta leggendone i testi, “tanto da baciare i libri su cui sono stampati”, come confessa ella stessa.

Un amore tormentato e doloroso per entrambe, anzi un amore che brucia e non dà pace, come racconta lo stesso Carducci nelle sue lettere, che finirà bruscamente ma che non avrà conseguenze. Nel 1878 Carducci, dopo aver messo fine alla relazione fedifraga, tornerà dalla moglie Elvira e le resterà a fianco fino alla morte, considerandola il suo unico vero amore.

Di seguito riportiamo la lettera che Carducci scrisse a Lidia il 17 agosto del 1876, in un momento di fragilità, di confusione e di dubbio.

“Mio amore,

Che vuoi ch’io ti dica? Le tue lettere mi commuovono, m’inteneriscono, mi ricordano tante e tante dolci cose, e tanto amore lacrimato, gioito, fatto con tanta verità, che io ho vergogna e dispetto di trattarti alle volte cosí male, e ne voglio male a me stesso. Ma d’altra parte grandi ombre nere sorgono e s’interpongono fra l’amor mio e la verità.

Tu hai troppi segreti, troppi intrighi, troppi sottintesi. Ma lasciamo di ciò. Lasciamo: tanto… Se bene sarebbe meglio parlarne. Oh, se tu fossi piú intera, piú schietta, piú una! Se tu volessi e potessi sacrificare un po’ della tua civetteria, della tua leggerezza crudele, della tua fantasia egoistica per cui intendi a piacere soltanto, a chiunque siasi, in qualunque modo; se tu potessi o volessi sacrificare queste tendenze della tua natura ferocemente feminea all’amor vero, alla vera passione, che tu non conosci altro che a momenti; le cose andrebbero meglio. Ma… ma bisogna rassegnarsi, finché potremo rassegnarci.

Vedi: in questi ultimi giorni, io mi sono accorto di tre o quattro cose passabilmente oscure o misteriose o incerte o involute. E tu hai la superba e candida pretesa, che un uomo come me, il quale ebbe dalla natura il triste privilegio di una perspicacia sicura a diffidare e conoscere il male; tu hai, dico, la superba e candida pretesa che io mi stia a’ tuoi piedi tutto credulo e contento alle parole che dici.

Tu credi che le parole, quando escono dalla bocca tua e perché escono dalla bocca tua debbano sonar per me verità. Ah, dolce amica! Io sono uno strano uomo: il cuor mio arde e ama sempre; il mio cervello è gelido e diffida e ride sempre. Come accozzare i due contrari? Tanto piú che la mia ragione è fieramente ammaestrata e maestra nella scherma nel dare e riparare i colpi dell’odio, del dubbio, della diffidenza, del disprezzo?

Meglio sarebbe, amor mio, abbracciarci e carezzarci, quando possiamo; e poi, del resto, non vederci; non parlarci, non discuter mai, l’un con l’altro. Io e tu non possiamo stare insieme due giorni senza contendere; non possiamo scriverci due lettere, che una punta d’ironia, o di diffidenza, o d’odio, o d’insulto non ci traspaia. Ah, no! non c’intendiamo. Guardino gli iddii che fossimo marito e moglie, come tu ne’ tuoi slanci lirici vorresti. Finirebbe alla corte di assise. Basta, amor mio, quel troppo che mi hai fatto soffrire come amante. Con ciò, non disconosco quel molto di bello e di buono e di tenero e di sublime che è in te. Ma in te anche predomina la fantasia sul cuore e la ragione.

Tu veramente non hai cuore. Tu ami solamente con l’imaginazione. Quindi ogni tuo difetto. E bada che l’imaginazione sola nell’amore o nel desiderio di piacere conduce alla corruzione, alla depravazione, all’abominio. Tu di queste cose sostieni di non capir nulla, ma ne sai, viceversa, piú di me. Credi, amica mia, che, dopo quattro anni, le frasi non mi convincono piú; amerei i fatti.

I fatti? i fatti? tu dici. Ma che non ho fatto per te?  Rimproveri e rimpianti inutili. Tu non vuoi metter giudizio: tu sei e sarai sempre cosí: l’intrigo, la falsità, e la gran vernice ideale e sentimentale e superba, è il tuo destino. Povera donna! sciagurata e deplorabile donna! Non si può barare col destino e con gli iddii. Tu sei cosí. Tu sei la falsità ideale, la menzogna sentimentale, l’equivoco romantico, la viltà eroica, la cabala, l’imbroglio armonizzato in un’arietta classica. Addio, mia cara. Ti sentiresti proprio di rispondere con fatti a certe opposizioni che potrei moverti? con fatti, bada, non con parole. Di queste ne ho avute tante da quattro anni, e tutte sono state contraddette, invalidate, provate false da altre parole; che io per me rinunzio ad averne di nuove.

Ti saluto e ti abbraccio, perché ti amo. E darei non so che, perché si potesse mutare in te la natura e tu potessi risolverti a essere schietta, vera, una. Tu non sai, e non puoi concepire, quanto l’uomo cresce a essere schietto e vero, anche contro di sé; e come è debole, vile, spregevole la creatura falsa, riconosciuta falsa, e che si ostina a esser falsa.”

Giosuè Carducci

Giosuè Carducci nacque a Valdicastello, in provincia di Lucca, nel 1835 da un medico condotto, con un passato da rivoluzionario, e dalla figlia di un orefice fiorentino, bella e di grande cultura. Dopo la laurea in filosofia e filologia alla Scuola Normale Superiore di Pisa,  divenne professore di eloquenza italiana presso l’università di Bologna.

Fu proclamato “poeta nazionale” grazie alle sue opere, le più celebri delle quali sono di certo “Rime nuove” e “Odi barbare”, così intitolate perché Carducci aveva tentato di riprodurre il ritmo della metrica latina e greca, ma era convinto che sarebbero risultate involute, e quindi barbare, se ascoltate da un latino o da un greco.

Nel 1890 fu nominato senatore, nel 1906 ricevette il Nobel per la letteratura e fu il primo italiano a vincere il premio. 

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