Una frase di Doris Lessing sull’ineffabilità della felicità

20 Ottobre 2025

Leggiamo assieme questa citazione del premio Nobel per la Letteratura, Doris Lessing, sulla sulfurea e impalpabile felicità.

Una frase di Doris Lessing sull'ineffabilità della felicità

In questa frase tratta da Memorie di una sopravvissuta, Doris Lessing condensa un pensiero profondamente umano e universale: la felicità non è un’entità stabile, ma un’esperienza fluida, sfuggente, che muta con il tempo, le circostanze e soprattutto con lo sguardo di chi la osserva. Non si tratta di un sentimento fissato una volta per tutte, ma di una presenza intermittente, spesso irriconoscibile, che assume volti diversi nel corso della vita.

“Felicità? È una parola che, di tanto in tanto, nella mia vita, ho raccolto, ho osservato – ma mai l’ho scoperta sotto le stesse sembianze.”

L’autrice britannica, premio Nobel per la Letteratura nel 2007, scrisse Memorie di una sopravvissuta nel 1974, in un periodo in cui la sua scrittura si orientava verso il simbolismo e la riflessione allegorica. L’opera, che mescola elementi realistici e surreali, esplora la disgregazione di una società e la ricerca di senso in un mondo sull’orlo del collasso. In tale contesto, la parola “felicità” appare quasi come un frammento estraneo, fragile, che la protagonista raccoglie lungo il suo cammino come se fosse un oggetto smarrito, da contemplare ma non da possedere.

Doris Lessing e la felicità

Doris Lessing inizia con una domanda, “Felicità?”, seguita da una riflessione che non riguarda tanto l’esperienza quanto la parola stessa. Già questa scelta linguistica è significativa: la scrittrice non parla della felicità come di un’emozione vissuta, ma come di un concetto linguistico, un segno da “raccogliere” e “osservare”. È come se la felicità appartenesse più al vocabolario che alla vita, come se fosse un termine che usiamo spesso ma che raramente corrisponde a una realtà tangibile.

Nell’uso del verbo “raccogliere” si intravede un gesto di attenzione, quasi archeologico: la protagonista sembra frugare tra le rovine della propria esistenza per trovare, di tanto in tanto, una traccia di felicità. Ma, come aggiunge subito dopo, “mai l’ho scoperta sotto le stesse sembianze”. La felicità, dunque, non si presenta mai due volte nello stesso modo: è una realtà cangiante, che dipende da chi la osserva e da come la osserva.

In questa prospettiva, Lessing si avvicina a una concezione esistenziale della felicità: essa non è un traguardo definitivo, ma una serie di momenti fugaci che assumono forme diverse a seconda dell’età, della memoria, delle esperienze. Ciò che a vent’anni sembra la pienezza assoluta — un amore, una conquista, una libertà appena scoperta — può apparire, con il passare del tempo, come un’illusione o un frammento di un mosaico più grande.

La felicità, suggerisce la scrittrice, non è mai la stessa perché non siamo mai gli stessi noi. Cambiamo continuamente, e con noi cambiano anche le coordinate attraverso cui percepiamo il mondo. La felicità di un’infanzia spensierata, quella di una maturità serena o di una vecchiaia riconciliata non sono comparabili: appartengono a stagioni differenti dell’animo, a sguardi differenti sul reale.

Lessing sembra volerci dire che non esiste una felicità universale, ma solo esperienze individuali, irripetibili, spesso ineffabili. Ogni volta che la incontriamo, la felicità indossa un abito diverso, parla una lingua nuova. E quando cerchiamo di definirla, di fissarla in una formula o in un ricordo, essa già si è trasformata.

La scrittrice usa due verbi che appartengono alla sfera dell’osservazione: raccogliere e osservare. Non “provare”, non “vivere”, ma “guardare”. Questo atteggiamento riflessivo suggerisce che la protagonista, come la stessa Lessing, assume il ruolo di testimone più che di partecipe. È una sopravvissuta — come indica il titolo del romanzo — che guarda la vita da una distanza consapevole, come chi sa di non poter più viverla pienamente ma ancora la contempla con curiosità e stupore.

In questa distanza c’è una malinconia lucida: la felicità è diventata un fenomeno da studiare, non da possedere. Forse è proprio questa la condizione della maturità: non la perdita della felicità, ma la sua trasformazione in oggetto di memoria e di osservazione.

La felicità come metamorfosi

Lessing, in tutta la sua opera, è stata una scrittrice del cambiamento. Le sue protagoniste — donne complesse, spesso in conflitto con se stesse e con il mondo — attraversano fasi di crisi, metamorfosi, rinascita. Anche la felicità, nel suo universo narrativo, subisce continue metamorfosi. Non è mai un bene da conquistare, ma una forma di consapevolezza, un lampo di armonia che illumina, per brevi istanti, il caos dell’esistenza.

Così, il fatto che la felicità non appaia “sotto le stesse sembianze” non è una condanna, ma una conferma della sua vitalità. Se la felicità cambiasse forma, significa che è viva, che si adatta a noi, che segue i nostri mutamenti interiori. È la prova che la vita, pur nei suoi dolori e nelle sue fratture, non smette mai di offrirci nuove possibilità di stupore.

C’è, infine, in questa riflessione di Lessing, un’intuizione profondamente temporale. La felicità non si lascia possedere perché appartiene al tempo, e il tempo, come la vita, scorre, si trasforma, cancella e riscrive. Ogni volta che crediamo di riconoscerla, essa è già altrove, ha già mutato volto.

Forse, suggerisce Lessing, l’unico modo autentico di viverla è accettarne la transitorietà: raccogliere i frammenti, guardarli con meraviglia, senza pretendere di trattenerli. In questo gesto umile, in questa disponibilità ad accogliere senza possedere, sta forse la forma più alta di felicità possibile.

Doris Lessing, con la sua consueta profondità, ci invita a ripensare la felicità non come un punto d’arrivo, ma come un movimento, un percorso che accompagna l’essere umano per tutta la vita. “Felicità?” — sembra chiedere con ironia e tenerezza — “forse non è mai la stessa, ma è sempre, in qualche modo, presente.”

In fondo, la felicità, per Lessing, non è un dono stabile né un premio da conquistare: è un volto che cambia, uno specchio che riflette, di volta in volta, il nostro modo di guardare il mondo. E proprio perché non si mostra mai sotto le stesse sembianze, continua a sorprenderci, a incuriosirci, a tenerci vivi.

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