La citazione di Carlos Ruiz Zafón è un’osservazione raffinata e psicologicamente densa sulla natura dell’identità e della comunicazione umana. In apparenza semplice, essa scava nelle profondità della nostra esperienza relazionale, proponendo un paradosso solo all’apparenza illogico: spesso ci sentiamo più liberi di aprirci, di rivelare le nostre fragilità, i nostri pensieri più autentici, a un estraneo piuttosto che a una persona cara o familiare. Questa intuizione, espressa con la prosa malinconica e avvolgente che contraddistingue lo stile di Zafón, si rivela sorprendentemente coerente con quanto ci suggeriscono sia l’esperienza quotidiana che la riflessione filosofica e psicologica.
“A volte è più facile confidarsi con un estraneo. Chissà perché. Forse perché un estraneo ci vede come siamo realmente, e non come vogliamo far credere di essere.”
Carlos Ruiz Zafón e la percezioni che gli altri hanno di noi
Confidarsi con un estraneo significa, paradossalmente, sentirsi al sicuro. Nonostante l’assenza di un legame affettivo o storico, anzi forse proprio grazie a questa assenza, l’altro non ha ancora proiettato su di noi un’immagine, una maschera, un’aspettativa. Nelle relazioni consolidate, l’identità che ci viene attribuita si cristallizza: siamo madri, figli, amici, colleghi, e ognuno di questi ruoli porta con sé un copione, una trama prestabilita.
Di conseguenza, ogni confessione, ogni verità che esce dal seminato di quel ruolo, rischia di incrinare un equilibrio, di generare disillusione o conflitto. L’estraneo, invece, si pone come uno specchio temporaneo, neutro, privo di pretese. In lui non risiede alcuna aspettativa né giudizio sedimentato.
Zafón suggerisce, nel suo romanzo, che l’estraneo possiede un vantaggio fondamentale: ci vede per ciò che siamo, non per ciò che vogliamo sembrare. In questo, c’è un richiamo implicito alla nozione di autenticità. Nel mondo contemporaneo, dominato dalla rappresentazione costante del sé – si pensi al ruolo dei social media, ma anche semplicemente alle dinamiche familiari e professionali – siamo costantemente impegnati a costruire una versione “narrabile” di noi stessi: più forte, più serena, più competente.
Tuttavia, questa narrazione spesso non coincide con ciò che proviamo veramente. L’estraneo, in quanto figura libera da memoria condivisa, da passato comune, non ha modo di giudicare il nostro presente se non per quello che appare lì, nell’immediatezza. Ed è in quella frattura che nasce lo spazio della confessione.
È interessante osservare come questo meccanismo sia stato descritto anche da grandi psicologi e filosofi. Sigmund Freud, per esempio, fondava parte del suo metodo psicoanalitico proprio sull’idea che il paziente potesse liberamente esprimere pensieri e desideri nascosti nel contesto protetto e non giudicante del setting analitico. Il terapeuta, in quanto “estraneo istituzionalizzato”, incarnava la possibilità della confessione senza conseguenze morali o affettive. Ma ancor prima, nelle Confessioni di Sant’Agostino, si ritrova un meccanismo simile: la verità di sé si dice solo a chi è in grado di accoglierla nella sua nuda fragilità, senza ribattere, senza riformulare, senza distorcere.
Carlos Ruiz Zafón: noi e gli altri
Zafón inserisce questa riflessione in un contesto narrativo preciso, ma il suo valore trascende la pagina. “L’ombra del vento” è un romanzo che indaga il mistero dell’identità, dell’amore, del tempo e del potere salvifico o distruttivo dei libri. All’interno di questo universo, la possibilità di confidarsi con un estraneo diventa una metafora della verità che ci sveliamo solo nel momento in cui abbandoniamo il bisogno di essere riconosciuti in un certo modo. La fiducia, inaspettatamente, non nasce solo dalla conoscenza lunga e paziente, ma talvolta dalla brevità intensa di un incontro effimero.
Questa dinamica è tanto più attuale quanto più viviamo in una società in cui l’intimità vera è spesso sacrificata all’efficienza comunicativa. Nella fretta del quotidiano, nelle reti affettive sempre più contratte o condizionate dal giudizio, gli spazi del silenzio e della comprensione si restringono. In questo scenario, l’estraneo – la persona seduta accanto a noi in treno, l’interlocutore sconosciuto di una chat anonima, il confidente occasionale – diventa figura quasi archetipica della possibilità di essere noi stessi. È un’anomalia felice: l’intervallo tra due maschere, l’istante in cui si può parlare senza paura di essere etichettati, ridotti, spiegati.
Infine, non va trascurato il valore letterario di questa intuizione. Zafón ci mostra, con la forza della semplicità, come l’introspezione più sincera nasca proprio nell’interazione apparentemente più superficiale. Come se ci volesse ricordare che, a volte, un dialogo casuale contiene più verità di mille conversazioni formali. In fondo, chi è che ci conosce davvero? Forse proprio colui che non ci conosce affatto. E nel breve passaggio tra l’essere estranei e il divenire compagni di verità, si nasconde una delle esperienze più misteriose e consolanti dell’esistenza umana.