La riflessione di Carlo Michelstaedter contenuta nella citazione tratta da Fugge la vita — una raccolta postuma di appunti filosofici — si snoda attorno al tema dell’amore, del desiderio, della conoscenza e, in ultima analisi, della saggezza. In pochi periodi densi e concatenati, Michelstaedter esprime un pensiero radicale, che mette in discussione il valore stesso dell’amore come esperienza veritativa, riducendolo a un intreccio di illusione, fede e paradosso. Questa riflessione, benché in apparenza astratta e concettuale, ha implicazioni esistenziali profonde e si inserisce coerentemente nel quadro filosofico del pensatore goriziano, noto per la sua breve ma intensissima attività speculativa.
Non si può amare che una cosa che si conosce; non si può desiderare che ciò che non si conosce; non si può desiderare che ciò che si ama; ma si ama una cosa che non si conosce quando si crede che in lei stia quel bene che molto chiaramente si conosce. Ogni amore è dunque una fede e un’illusione.
Amore della saggezza è contrassegno di chi non è saggio, ma se questi arriva alla saggezza egli perde l’illusione ultima, o arriva alla saggezza soltanto uscendo da quest’ultima illusione. E potrà uscire dall’illusione colui soltanto che amava nella saggezza la libertà, l’essenza assoluta.
Carlo Michelstaedter paradosso conoscitivo dell’amore
L’apertura dell’aforisma è un sillogismo negativo che genera immediatamente tensione logica:
«Non si può amare che una cosa che si conosce; non si può desiderare che ciò che non si conosce; non si può desiderare che ciò che si ama».
La struttura è volutamente circolare e contraddittoria: se l’amore presuppone la conoscenza, ma il desiderio nasce dall’ignoranza, e se il desiderio è necessario all’amore, allora l’amore si fonda su una contraddizione. Il pensiero è vicino per certi versi alla dialettica platonica dell’Eros come mancanza (si desidera ciò che non si possiede), ma Michelstaedter spinge il ragionamento fino al punto in cui il desiderio diventa incompatibile con la reale conoscenza.
Eppure, nonostante l’apparente aporia, Carlo Michelstaedter individua una via di fuga:
«Si ama una cosa che non si conosce quando si crede che in lei stia quel bene che molto chiaramente si conosce».
Qui emerge la funzione centrale dell’illusione e della fede. Non si ama ciò che si conosce, ma ciò che si crede che contenga ciò che si conosce come bene. In altri termini: si proietta su qualcosa di concreto — una persona, un’idea, un oggetto — un valore astratto, ideale, universale, che già si possiede interiormente come intuizione del bene. Questo è il meccanismo della fede amorosa, e insieme, dell’illusione fondamentale: l’idea che un contenuto del mondo possa incarnare l’assoluto.
L’amore come illusione, la saggezza come disillusione
Carlo Michelstaedter prosegue con una delle sue proposizioni più memorabili:
«Ogni amore è dunque una fede e un’illusione».
La radicalità di questa affermazione non è solo teoretica: è il segno di una rottura con ogni concezione romantica o idealistica dell’amore. L’amore è fede perché si basa su un’adesione non mediata da prove alla verità del bene proiettato sull’oggetto amato. Ma è illusione perché tale verità non è veramente presente in quell’oggetto.
Questa dinamica vale anche per l’amore filosofico, cioè per l’amore della saggezza (filo-sophía). Michelstaedter smaschera l’apparente nobiltà di questa tensione intellettuale, affermando:
«Amore della saggezza è contrassegno di chi non è saggio».
Chi ama la saggezza, in realtà, non è ancora saggio. Solo chi ne è privo può desiderarla. E, come nell’amore ordinario, anche qui il desiderio è sostenuto da una fede e da un’illusione: la credenza che la saggezza possa essere posseduta, realizzata, trovata. Ma chi giunge davvero alla saggezza, perde l’illusione ultima — la speranza stessa che qualcosa nel mondo possa soddisfare la mancanza.
Libertà e disincanto
La conclusione è forse la parte più luminosa e insieme più tragica della riflessione:
«E potrà uscire dall’illusione colui soltanto che amava nella saggezza la libertà, l’essenza assoluta».
Qui Carlo Michelstaedter distingue tra due modi di amare la saggezza: uno che desidera il possesso di un sapere, e un altro che desidera, attraverso la saggezza, la libertà — cioè il distacco radicale da ogni illusione e da ogni legame con l’apparenza. Solo chi cerca la saggezza non per ottenere qualcosa, ma per liberarsi da tutto, è destinato a trovare l’essenza, o quantomeno ad avvicinarsi ad essa.
È un pensiero vicino alla catarsi tragica, ma anche alla liberazione mistica: l’uscita dall’illusione comporta la perdita dell’oggetto amato, del mondo, del desiderio stesso — ma, in questa perdita, si conquista la verità. La libertà di cui parla Michelstaedter è una forma di salvezza laica, radicalmente negativa: essa non offre una nuova speranza, ma dissolve l’illusione e con essa il dolore.
Questo frammento di Carlo Michelstaedter, come gran parte della sua opera, è espressione di un pensiero tragico, lucido, che si colloca ai margini della filosofia accademica ma nel cuore di una riflessione esistenziale intensa. La sua critica all’amore come illusione non è un invito al cinismo, ma un cammino ascetico verso la verità, che passa attraverso il disinganno.
In un’epoca come la nostra, in cui il desiderio viene continuamente alimentato e l’amore mitizzato, la voce di Carlo Michelstaedter risuona come un ammonimento: cercare la verità significa abbandonare l’illusione, anche quella più cara, quella che ci tiene in vita. Ma solo così si può tentare di vivere autenticamente.