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Una frase di Carlo Emilio Gadda sul male che è l’egoismo

Leggiamo la citazione tratta dal romanzo "La cognizione del dolore", di Carlo Emilio Gadda, opera su quel male oscuro che è la nevrosi d'angoscia.

In questo passaggio folgorante, Carlo Emilio Gadda (14 novembre 1893 – 21 maggio 1973) esprime con forza la propria sfiducia nei confronti del pronome personale, e in particolare del pronome “io”, che identifica il soggetto parlante. La sua è una dichiarazione provocatoria, ma tutt’altro che priva di fondamento. Essa riflette una concezione complessa dell’identità, del linguaggio e della possibilità stessa di pensare e dire la realtà. Nel romanzo La cognizione del dolore — opera tra le più dense e tormentate della narrativa novecentesca — Gadda compie una vera e propria dissezione del dolore personale e collettivo, in un’epoca segnata dal disastro storico, dalla miseria affettiva e dall’impossibilità di costruire una narrazione unitaria del sé.

“L’io, io!… il più lurido di tutti i pronomi!… I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero. Quando il pensiero ha i pidocchi, si gratta come tutti quelli che hanno i pidocchi… e nelle unghie, allora… ci ritrova i pronomi: i pronomi di persona.”

L’“io” come pidocchio della mente, nelle parole di Carlo Emilio Gadda

Nell’attacco violento all’“io”, Gadda fa risuonare l’eco di una tradizione filosofica che da Nietzsche a Freud, da Pirandello a Heidegger, ha messo in dubbio la consistenza e la centralità dell’identità individuale. L’“io” non è una realtà trasparente, ma un costrutto linguistico, fragile e illusorio. Dire “io” implica un atto di appropriazione, di identificazione, ma spesso si tratta di un gesto arbitrario, fittizio, quasi patologico. L’“io” è lurido, dice Gadda, perché è il punto da cui si pretende di dare ordine al caos, di mettere in fila pensieri, giudizi, emozioni, esperienze — operazione che l’autore sente come profondamente falsa.

Per Gadda, l’“io” non è il centro della coscienza, ma un fardello linguistico, una trappola mentale. Il pronome non rivela la soggettività: la maschera. E come tutte le maschere, essa nasconde più di quanto mostri. Non a caso, nel romanzo, il protagonista — alter ego trasfigurato dello scrittore stesso — è descritto come un uomo lacerato, incapace di riconciliarsi con se stesso e con il mondo. L’“io” non è un approdo, ma una ferita.

I pronomi come pidocchi

L’invettiva contro i pronomi si estende: “I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero.” È un’immagine disturbante e memorabile. Come i pidocchi infestano il corpo e provocano prurito, così i pronomi infestano il pensiero, lo irritano, lo costringono a grattarsi, a cercare sollievo, a spezzarsi. Il paragone non è solo iperbolico: è profondamente significativo. Il pensiero, in questa visione, non è un’attività pura, razionale, lineare. È un corpo che soffre, che si ammala, che viene infestato da parassiti linguistici.

Il pronome, lungi dall’essere uno strumento innocuo, è per Gadda il segno di un’infezione: quando il linguaggio si infetta, il pensiero si corrompe, e nella finta chiarezza dei “tu”, “io”, “egli”, si annida la menzogna. Il linguaggio quotidiano, con la sua grammatica rigida e i suoi meccanismi automatici, nasconde la complessità dell’esistenza, la disgregazione dell’identità, la natura tragica dell’essere. Così come i pidocchi si trovano sotto le unghie, dice Gadda, anche i pronomi saltano fuori dal linguaggio scavato, da una riflessione profonda e inquieta. Sono ciò che resta dopo il grattamento, il segno dell’irritazione del pensiero.

Nel romanzo, la sintassi si contorce, il lessico si moltiplica, le frasi si allungano in parentesi e subordinate che sembrano non finire mai. È il segno di un pensiero che non si fida di sé stesso, che teme le semplificazioni e rifiuta le strutture lineari. Il linguaggio stesso è sintomo del dolore, della frattura interna, dell’impossibilità di trovare un ordine.

Il soggetto moderno smarrito

Con questa feroce invettiva, Gadda si colloca nel cuore della crisi del soggetto moderno, tema cardine del Novecento. Dopo le guerre mondiali, dopo l’esperienza del fascismo e delle dittature, l’idea di un soggetto razionale, padrone di sé e del proprio destino, appare irrimediabilmente compromessa. L’identità non è più un fondamento, ma un problema. L’“io” non è il protagonista, ma un relitto. La modernità letteraria, da Kafka a Beckett, da Musil a Gadda, è il teatro in cui questa frattura viene messa in scena con lucidità spietata.

Gadda, però, non si limita a rappresentare la crisi: la incarna nella sua scrittura. Ogni frase, ogni parola, ogni scelta stilistica denuncia la fatica di pensare, la difficoltà di dire, la sospetta falsità del pronunciare “io”.

Quella di Gadda è una lezione radicale: ci invita a dubitare della parola, soprattutto della parola che pretende di essere innocente. Il pronome “io” è la menzogna più grande perché finge di rappresentare qualcosa che forse non esiste: un’identità coerente, un pensiero stabile, una voce unitaria. Nel mondo di La cognizione del dolore, tutto è frattura, tutto è maschera, tutto è dolore. E nel cuore di questo dolore si annida il pidocchio: il pronome che gratta il pensiero fino a consumarlo.

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