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I versi di Arrigo Boito sul grande amore per un amico

Leggiamo assieme questi versi di Arrigo Boito in cui emerge tutto l'amore e la fratellanza nei confronti dell'amico, poeta, Giovanni Camerana.

Questi versi, tratti da A Giovanni Camerana di Arrigo Boito, condensano in poche righe una metafora struggente e potente: quella del cuore umano paragonato a un tizzo acceso, che, finché brucia, non può fare a meno di fumare, ossia di produrre segni visibili della sua combustione — il dolore, il pianto, la malinconia. L’amore, in questa visione, non è una passione gioiosa e luminosa, ma una fiamma che consuma lentamente, e il cuore, nel viverla, si distrugge dolcemente, come un carbone incandescente che non si spegne senza lasciare tracce.

“Il tizzo acceso fin che arde fuma;
simile, o mesto amico, al nostro cuore
che in pianto si consuma
fin che arde l’amore.”

Siamo nel cuore fulcro ardente delle Scapigliatura, nel quale Boito – poeta, musicista, librettista d’eccezione per Giuseppe Verdi – mostra tutta la sua maestria nel fondere immagine, suono e significato. L’intimità e l’intensità dei versi dedicati a Giovanni Camerana, poeta anchegli scapigliato, rivelano non solo una comunanza stilistica e spirituale, ma anche una riflessione profonda sul dolore d’amare.

Arrigo Boito e Giovanni Camerana: il cuore della Scapigliatura

Il verso iniziale — “Il tizzo acceso fin che arde fuma” — ci introduce immediatamente in un immaginario fisico, quasi domestico. Il tizzo, pezzo di legno ardente, è metafora di qualcosa che ha dentro di sé la fiamma, la brace viva: l’amore. Ma l’immagine non è gloriosa né eroica: il tizzo non brilla serenamente, fuma. E il fumo non è luce, bensì nebbia, offuscamento, qualcosa che ostacola la vista e fa lacrimare. In altre parole, l’amore che arde non è pura passione sublime, ma è anche ciò che offusca, che brucia e insieme corrode.

È una visione anti-idilliaca dell’amore, molto lontana dall’estetica romantica più ingenua. L’amore non è rappresentato come forza redentrice, bensì come fiamma dolorosa, come causa di un lento consunzione, fisica ed emotiva. In questo senso, Boito abbraccia la sensibilità decadente, dove la bellezza è intrisa di morte, e il sentimento è sempre doppio: sublime e dannoso, divino e ferino.

Il cuore che piange: la malinconia come condizione dell’amore

“Simile, o mesto amico, al nostro cuore / che in pianto si consuma”: il cuore umano è messo sullo stesso piano del tizzo, e ciò che ne deriva non è solo calore, ma anche fumo, ovvero pianto. L’atto stesso dell’amare diventa qui un processo ineluttabile di auto-consunzione, e il dolore non è qualcosa che segue l’amore, ma qualcosa che coincide con esso. Non c’è amore senza fumo, senza lacrime, senza una lenta combustione dell’anima.

Questo passo segna un distacco netto da ogni visione serena o armonica dell’amore. Boito ci dice che il pianto non è la conseguenza di un amore fallito, ma è parte integrante del suo stesso ardere. L’amore è dunque, per natura, malinconico e struggente. Non si può amare senza bruciarsi, senza piangere.

Il richiamo all’“amico mesto” — Giovanni Camerana — rafforza l’idea che questa visione sia condivisa, quasi un patto tra poeti affini per temperamento e visione del mondo. Camerana stesso era noto per il suo pessimismo e la sua poesia tragica, influenzata dalla filosofia del disincanto e dall’angoscia esistenziale. Il “mesto amico” non è un destinatario esterno: è il riflesso dell’autore stesso, è la voce corale di una generazione che vede nel sentimento un baratro.

L’amore come esperienza tragica

“Fin che arde l’amore”, conclude Boito, chiudendo il giro della similitudine con un verso che contiene un’ambiguità profondamente tragica. L’amore, che dovrebbe riscaldare e illuminare, è invece fiamma che consuma e spegne. L’uso del “finché” indica una durata, una condizione: il cuore continua a piangere finché dura l’amore. Cessata la fiamma, cessano anche le lacrime — ma non perché si guarisca, bensì perché il cuore è ormai cenere.

L’amore qui è una forma di destino, una condanna dolce e ineluttabile. Chi ama è condannato a soffrire, a bruciare lentamente in un dolore che si manifesta come pianto, malinconia, struggimento. Eppure, in tutto questo, non c’è compiacimento morboso: Boito riesce a trasformare questa visione in poesia pura, in un canto di bellezza triste che non cerca rimedio né giustificazione.

Questi versi si inseriscono perfettamente nella sensibilità fin de siècle, dove tutto ciò che è bello è destinato a perire, e dove l’amore stesso è visto come passione destinata a un consumo inevitabile. Boito, con pochi versi, riesce a toccare le corde di un sentire comune che unisce arte, vita e poesia sotto il segno della fiamma effimera e del pianto che l’accompagna.

La loro forza sta proprio nella semplicità e nella forza dell’immagine: chiunque ha visto un tizzo ardere sa cosa significa quel fumo che sale lento e grigio. Ed è forse per questo che i versi ci colpiscono così a fondo: perché ci parlano di un dolore che conosciamo, che forse abbiamo vissuto, o che ci minaccia ogni volta che decidiamo di amare davvero.

In fondo, come il tizzo, anche il cuore arde. E finché arde, fuma.

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