I versi di Antonia Pozzi sulla dolcezza della nostalgia

16 Luglio 2025

Leggiamo assieme questi versi di Antonia Pozzi da cui emerge che a volte anche la nostalgia può presentare sfumature dolci nelle nostre vite.

I versi di Antonia Pozzi sulla dolcezza della nostalgia

Antonia Pozzi, poetessa milanese vissuta nella prima metà del Novecento (1912–1938), è una delle voci più limpide, intime e tragicamente consapevoli della poesia italiana del secolo scorso. I versi da lei composti, spesso raccolti in diari o in lettere e pubblicati postumi, si distinguono per la loro straordinaria capacità di fondere il paesaggio esterno con quello interiore, trasformando ogni dettaglio visivo in un’eco dell’anima.

In questa breve lirica, che si apre con “Ricordo che, quand’ero nella casa / della mia mamma, in mezzo alla pianura…”, Antonia Pozzi ci conduce nel territorio sospeso della memoria, intrecciando l’infanzia, il desiderio, e il senso di lontananza, attraverso immagini semplici eppure dense di significato.

Ricordo che, quand’ero nella casa
della mia mamma, in mezzo alla pianura,
avevo una finestra che guardava
sui prati; in fondo, l’argine boscoso
nascondeva il Ticino e, ancor più in fondo,
c’era una striscia scura di colline.
Io allora non avevo visto il mare
che una sol volta, ma ne conservavo
un’aspra nostalgia da innamorata.

Antonia Pozzi e la nostalgia

L’ambientazione iniziale è chiara e familiare: una casa nella pianura, “la casa della mia mamma”. L’uso del possessivo “mia” attribuito alla figura materna suggerisce un legame affettivo profondo, ma già segnato da una distanza temporale, richiamata dal verbo all’imperfetto: “quand’ero”. Il ricordo, infatti, non è immediato né vivido come una presenza attuale, ma filtrato dalla consapevolezza del tempo trascorso. La finestra che dà “sui prati” non è solo un’apertura sul paesaggio fisico, ma anche un varco della mente verso il passato e verso ciò che non si possiede più: l’infanzia, l’innocenza, e forse una felicità mai del tutto raggiunta.

Nel paesaggio descritto con delicatezza e precisione – i prati, l’argine boscoso che “nascondeva il Ticino”, le colline lontane – si avverte una tensione latente, una sorta di insufficienza. Nonostante la bellezza della scena, qualcosa manca. E quel qualcosa è il mare. Il verso “Io allora non avevo visto il mare / che una sol volta” introduce con forza la mancanza, ma è soprattutto il verso successivo, “ma ne conservavo / un’aspra nostalgia da innamorata”, a far emergere il nodo emotivo più profondo della poesia.

Antonia Pozzi non scrive semplicemente che le mancava il mare: afferma che ne conservava una “nostalgia da innamorata”, aggettivando la nostalgia con l’aggettivo “aspra”, che ne intensifica l’intensità dolorosa e sensuale. Questa non è solo una nostalgia geografica, legata a un luogo, ma un desiderio viscerale, quasi fisico, per qualcosa che ha segnato l’anima con la potenza fugace di un amore. È un moto sentimentale che fonde l’esperienza naturale con quella emotiva, come spesso accade nella sua poesia.

Il mare, visto “una sol volta”, assume allora un valore simbolico: è l’immagine dell’altrove, della libertà, del desiderio e del mistero. In questo senso, il paesaggio pianeggiante, seppur caro e familiare, appare insufficiente. La pianura diventa allora metafora della ristrettezza, della clausura domestica, dell’orizzonte limitato; mentre il mare rappresenta lo slancio vitale, l’infinito, l’apertura al mondo e a sé stessa. La tensione tra questi due poli – la sicurezza della casa e il richiamo del mare – è una delle tensioni fondamentali dell’anima poetica di Antonia Pozzi: da un lato il bisogno di appartenenza e protezione, dall’altro la necessità di evasione, di esplorazione, di abbandono a qualcosa di più grande, anche se pericoloso.

La nostalgia aspra per il mare, ricordato da un’infanzia di pianura, prefigura l’irrequietezza che attraversa tutta la sua breve vita e la sua opera. In effetti, Antonia Pozzi fu una giovane donna acuta, colta e intensamente sensibile, vissuta in un’epoca in cui il ruolo femminile era ancora fortemente limitato dalle convenzioni sociali e familiari.

Il suo amore non corrisposto per il suo ex professore, la difficoltà a trovare una voce nel mondo accademico dominato dagli uomini, il senso di costrizione nella sua stessa famiglia, contribuirono a costruire in lei un sentimento profondo di disadattamento e di solitudine. Quel “mare” lontano e amato è allora anche il simbolo di una vocazione poetica e umana che non riesce a trovare piena espressione nel contesto in cui è cresciuta.

Ciò che colpisce, in questi versi, è anche la straordinaria capacità evocativa con cui un paesaggio minimo – prati, colline, un fiume nascosto – riesce a parlare dell’universale esperienza della nostalgia. L’elemento naturale non è mai semplicemente decorativo nella poesia di Pozzi: è sempre uno specchio dell’anima. E il paesaggio della pianura, così placido in apparenza, si carica di malinconia proprio perché non è il mare, proprio perché non è abbastanza per colmare un bisogno più profondo.

La lievità del pudore

Antonia Pozzi scrive spesso del dolore con pudore, con levità, ma anche con una forza struggente. In questa poesia la nostalgia non è soltanto un sentimento malinconico: è un desiderio che brucia, che punge, che segna. È l’espressione di una coscienza che sente di non appartenere pienamente al mondo che la circonda e che, come il mare evocato, resta sempre un po’ al di là della linea dell’orizzonte.

Così, in pochi versi, Antonio Pozzi riesce a tracciare un paesaggio emotivo vastissimo, dove l’infanzia, la memoria, il desiderio e la frustrazione si fondono in un’unica immagine: quella di una finestra che guarda lontano, verso colline dietro le quali c’è un mare sognato, amato, e perduto.

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