La citazione di Andrea Pazienza tratta da Extrapaz offre uno degli squarci più sinceri e illuminanti sulla sua evoluzione artistica, sul rapporto conflittuale con l’arte “impegnata” e sul modo in cui ha scelto il fumetto come strumento espressivo capace di superare le contraddizioni della pittura di denuncia. La sua riflessione nasce dall’esperienza diretta, dall’amarezza e dall’ironia con cui osserva il destino inatteso dei propri quadri: opere create con un intento politico, sociale, provocatorio, che finiscono appese nelle camere da letto di farmacisti borghesi, ambienti lontanissimi dalla vibrazione critica che le aveva generate.
Questo scarto profondo tra intenzione e ricezione diventa per Pazienza un nodo irrisolto, un limite, e soprattutto una spinta verso un linguaggio diverso, più libero, più diretto, più popolare: il fumetto.
Prima di fare fumetti dipingevo quadri di denuncia. Erano tempi nei quali non potevo prescindere dal fare questo. Ma i miei quadri venivano comprati da farmacisti che se li mettevano in camera da letto. Il fatto che il quadro continuasse a pulsare in quell’ambiente mi sembrava, oltre che una contraddizione, anche un limite enorme. Da qui il mio desiderio di fare fumetti.
Andrea Pazienza e coerenza come imperativo morale
La frase iniziale — “Prima di fare fumetti dipingevo quadri di denuncia” — colloca l’artista nel clima culturale degli anni Settanta e primi Ottanta, un periodo segnato da forte politicizzazione e da una generazione che percepiva l’urgenza di esprimere dissenso attraverso l’arte. Andrea Pazienza appartiene a quella generazione, ma la sua sensibilità è già, da subito, refrattaria agli schemi e alle rigidità ideologiche. Creare quadri di denuncia era, in un certo senso, una necessità del tempo: “Erano tempi nei quali non potevo prescindere dal fare questo”.
Non poteva prescindere perché sarebbe stato come tacere, come voltarsi dall’altra parte in un’epoca di conflitti sociali, scontri politici, tensioni culturali. Il giovane Andrea viveva quell’urgenza, ma allo stesso tempo iniziava a percepire la fragilità del linguaggio con cui cercava di esprimerla.
La svolta arriva quando i suoi quadri vengono acquistati da farmacisti che li mettono in camera da letto. Pazienza racconta questo episodio con un’ironia amara: ciò che aveva voluto essere un gesto di rottura, un grido visivo, un atto di denuncia sociale, veniva accolto e inglobato in un contesto completamente diverso, borghese, privato, quasi decorativo. L’opera perdeva la sua carica antagonista, diventava parte dell’arredamento, un oggetto estetico più che politico. Il fatto che il quadro continuasse “a pulsare” in quell’ambiente gli appariva come una contraddizione insanabile: ciò che doveva disturbare finiva per abbellire; ciò che doveva urlare veniva silenziato dal contesto; ciò che doveva essere gesto pubblico diventava presenza intima e inoffensiva.
In questa immagine — il quadro “pulsante” nel silenzio di una camera matrimoniale — si condensa tutta la riflessione di Pazienza sul potere dell’arte e sui suoi limiti. La pittura, nel suo caso, rischiava di essere inglobata nel circuito del gusto borghese, svuotata della sua provocazione originaria. L’artista percepisce questo come un “limite enorme”, non solo per l’opera, ma per sé stesso: se l’arte non riesce a conservare la sua carica critica, se viene neutralizzata dal mercato, allora occorre cercare un’altra strada, un altro linguaggio, un altro mezzo capace di raggiungere le persone senza essere immediatamente addomesticato.
…l’approdo al fumetto
È qui che nasce “il desiderio di fare fumetti”. Il fumetto, agli occhi di Pazienza, rappresenta un territorio libero, anticonvenzionale, fluido, non ancora completamente invaso dai codici del mercato culturale alto-borghese. Un mezzo popolare, accessibile, dinamico, capace di mescolare registri diversi — grottesco, satira, poesia, realismo — senza perdere forza espressiva. Rispetto alla pittura, il fumetto ha un rapporto più diretto con il lettore: non è un oggetto da appendere e contemplare, ma una narrazione da vivere, un flusso visivo-verbale che coinvolge e trascina. Nei fumetti Pazienza può rompere le regole, può essere sfrontato, contraddittorio, poetico, feroce, senza avere la sensazione di essere “zingarato” dal contesto come accadeva alle sue tele.
La sua produzione fumettistica — da Le straordinarie avventure di Pentothal a Zanardi, da Pompeo ai lavori più brevi e fulminanti — mostra quanto questo mezzo fosse congeniale alla sua poetica. Nei fumetti, Pazienza supera definitivamente la logica della denuncia come gesto estetico isolato: la critica sociale si mescola alla biografia, allo humour nero, alla poesia della disperazione, alla potenza visionaria del segno. Il fumetto diventa una forma di vita, un modo per raccontare il mondo senza filtri ideologici preimpostati, una zona franca dove l’arte può restare pulsante senza rischiare di essere neutralizzata da un contesto borghese.
La citazione di Extrapaz ci restituisce dunque un momento di consapevolezza decisivo: il passaggio dall’arte come denuncia all’arte come necessità espressiva integrale. Pazienza non abbandona la politica o la critica sociale; semplicemente rifiuta i luoghi in cui l’arte critica perde senso. Sceglie il fumetto perché in esso può mantenere viva la tensione creativa, restare fedele alla propria autenticità, conservare l’energia che la tela rischiava di soffocare. È una lezione preziosa: l’arte non è solo ciò che l’artista crea, ma anche il luogo in cui quell’arte vive. E scegliere il luogo giusto può significare salvare — o perdere — la propria voce.