In queste parole di Alessandro D’Avenia (2 maggio 1977), scrittore, insegnante e divulgatore appassionato, si concentra una riflessione dirompente e profondamente umana su cosa significhi oggi essere felici, essere educati e, soprattutto, essere veri.
«Se i simboli della felicità sono quelli del successo e della perfezione, nell’età in cui cominci a concepire il tuo progetto di felicità ti senti subito schiacciato. Invece io voglio riscoprire quello stile veramente occidentale di educazione che ci ha insegnato Socrate: conoscerci con le nostre luci e ombre. Ma oggi sembra che debbano esserci solo le luci: quelle irreali del Photoshop. La nostra unicità invece passa per i nostri limiti»
Viviamo in un’epoca in cui la perfezione estetica e la performance sociale sono diventati standard di riferimento. Le immagini patinate dei social, i filtri digitali, i successi ostentati diventano il metro con cui ciascuno, soprattutto i più giovani, misura il proprio valore. Così, proprio nel momento della vita in cui una persona dovrebbe sentirsi libera di esplorare se stessa e immaginare un futuro possibile, ecco che si sente già inadeguata, “schiacciata” — come dice Alessandro D’Avenia — da un modello di felicità che non lascia spazio alla fragilità, all’errore, alla complessità dell’animo umano.
La felicità come prestazione: la triste constatazione di Alessandro D’Avenia
Il progetto di felicità che la società contemporanea propone è sempre più spesso fondato sul binomio successo-perfezione: essere amati significa essere ammirati; essere apprezzati significa non mostrare crepe; essere visibili significa avere qualcosa da esibire. In questo contesto, la felicità diventa una prestazione, un traguardo da raggiungere, un’immagine da costruire. Ma che tipo di felicità è quella che non ammette l’imprevisto, il fallimento, l’imperfezione? Una felicità misurabile solo in termini di consenso e apparenza è, di fatto, una forma di infelicità mascherata.
La lezione di Socrate
D’Avenia contrappone a questo modello l’antico ideale dell’educazione socratica: «conoscere se stessi». Per Socrate, la conoscenza non è accumulo di nozioni ma ricerca interiore, dialogo, consapevolezza delle proprie ombre tanto quanto delle proprie luci. La famosa massima “conosci te stesso”, incisa sul tempio di Delfi, è un invito a guardarsi dentro, a interrogarsi, a scoprire la verità della propria condizione umana, fatta di grandezze e di limiti. Socrate non predicava la perfezione, ma la verità: e la verità di ciascuno di noi è sempre intrecciata con i nostri errori, le nostre paure, i nostri desideri.
Recuperare questo stile educativo significa restituire valore alla vulnerabilità, alla lentezza del divenire, alla possibilità di sbagliare per imparare. È un’educazione non alla prestazione, ma alla relazione: con sé stessi, con gli altri, con il mondo. È anche, in fondo, un atto profondamente democratico, perché riconosce che ogni individuo, al di là della sua apparenza o del suo successo, ha valore proprio in quanto essere umano.
L’illusione delle sole luci
D’Avenia denuncia un’altra grande illusione contemporanea: la convinzione che debbano esistere solo le luci. Ma la luce, senza l’ombra, non esiste. La bellezza autentica nasce proprio dalla mescolanza, dalla tensione tra ciò che siamo e ciò che desideriamo essere. Le luci irreali del Photoshop non sono innocue: alterano la percezione di sé, spingono a rifiutare ciò che è naturale e autentico, generano un senso di inadeguatezza costante. Questo vale per l’aspetto fisico, certo, ma anche per il modo in cui si raccontano le vite: sempre di corsa, sempre piene, sempre vincenti. Quando la vita reale, invece, è fatta anche di vuoti, di silenzi, di incertezze.
L’unicità passa dai limiti
Ed è qui che la riflessione di D’Avenia tocca uno dei suoi punti più potenti: la nostra unicità passa per i nostri limiti. In un mondo che esalta l’omologazione e la competizione, riconoscere che i propri limiti non sono un difetto ma una caratteristica distintiva è un atto rivoluzionario. Essere unici non significa essere perfetti: significa essere autentici. Un limite può diventare un punto di forza, una via di accesso alla comprensione dell’altro, un’occasione di crescita. Solo accettando le nostre ombre possiamo diventare davvero noi stessi.
Riscoprire la lezione di D’Avenia — e prima di lui di Socrate — significa proporre un’educazione alla verità, non al mito. Una verità fatta di luci e ombre, di domande più che di risposte, di accettazione più che di apparenza. Significa liberare la felicità dal giogo della perfezione e restituirla alla sua dimensione originaria: quella di un cammino personale, unico e irripetibile, che passa attraverso la conoscenza di sé e la valorizzazione dei propri limiti. Solo così, forse, potremo aiutare le nuove generazioni a non sentirsi “schiacciate”, ma piuttosto sollevate dalla consapevolezza che non devono essere altro che ciò che già sono: esseri umani in cerca di senso.