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Lettera di Veronica Monti all’amico Yoshi

Caro Yoshi,

Grazie per la tua ultima lettera. Come al solito l’ho molto apprezzata.

Il cielo di Cracovia era trasparente e freddo come una lastra di vetro oggi. Mi è venuta quasi voglia di accarezzarlo, per sentire il solletico alle mani.
Sono riconoscente ad ogni giornata di sole. La luce è così dolce, cade e si adagia su ogni oggetto con la delicatezza di un petalo, avvolgendo il mio mondo in un abbraccio morbido, percorrendo i contorni delle cose con dita infinitamente amorevoli.

Com’è il tempo da voi a Londra?
Ricordo Londra come un enorme gomitolo di piombo, intriso di solitudine e di silenzio. Tu scrivi di amare Londra, perché ormai ci vivi da venticinque anni. Hai costruito le tue abitudini nel solco di quelle strade, hai disegnato la tua vita intorno a quegli edifici, giorno dopo giorno hai tessuto le tue piccole e preziose certezze tra quei rumori incessanti.
Io non ho potuto viverci per più di 10 mesi. Percepivo un’ostinazione ostile e quasi feroce in quello spazio troppo affollato, tanto vasto da essere inumano.
La solitudine di Cracovia, invece, fa proprio per me: è la solitudine di una malinconica e introversa signora di mezza età, avvolta in un semplice vestito beige, le mani affusolate e leggere che danzano con tristezza quando parla, e parlando dà voce a ricordi bisbigliati, a riflessioni intense ma innocue.
Mi sono sempre immaginata la Polonia come una donna magra e pensierosa, un po’ intellettuale forse, ma soprattutto intrisa di memoria, di emozioni tracciate con dolcezza nelle sue rughe appena accennate, nei tratti fini e raffinati del suo viso. E Londra che volto ha, secondo te? E’ uomo o donna? E’ giovane o anziana?

Ho preso ad amare questa mia stanza a Cracovia come se avesse un’anima, come se mi potesse percepire, come se potesse rispondere all’eco vuota dei miei pensieri. In queste quattro mura, caro Yoshi, sono passata attraverso mille stagioni spirituali: sono stata tranquilla, serena, divertita, sono stata triste, disperata, quasi suicida. A volte l’ho sentita abbracciarmi, come se avesse allungato le sue calde braccia su di me, e le sono stata grata. A volte ho sentito le mie parole solitarie sbattere contro le sue pareti con l’inutile e testarda disperazione di un uccellino spaventato. E l’ho odiata.
In ogni caso mi piace immaginare che gli oggetti abbiano un’anima, e mi piace trattarli con riguardo. So che non è vero ovviamente, ma mi piace pensarla così. Amo gli oggetti che ho accumulato in questa stanza, mi fanno sentire meno sola. Non riesco a liberarmi di loro. Ho sempre fatto moltissima fatica a buttare via gli oggetti vecchi o rotti: mi è sempre sembrato un atto di colpevole egoismo, una mancanza di rispetto nei loro confronti.
Voi giapponesi sorridete sempre quando vi dico queste cose. Ho l’impressione che per qualche motivo culturale un po’ mi capiate, o sbaglio?

Caro Yoshi, io sapevo che questo sarebbe stato un anno speciale, nel bene o nel male. Sin dai primi di gennaio ho avvertito come un senso di profonda tragicità, tanto intenso da essere insopportabile. E tu? Tu te lo aspettavi?

La tua ragazza si è tolta la vita quest’anno, e tu, solo in mezzo alla folla londinese, ancora non riesci a trovare le parole non solo per parlare di lei, ma anche per pensarla. Quindi suoni. Scrivi che la musica ti ha salvato la vita. Credo di capirti, caro. Quanti lutti e quanti dolori sono stati trasformati in pura bellezza dall’irresistibile simmetria della musica!
La sofferenza resta, ma come un cielo oscuro e tempestoso che guardi dall’interno della tua casa, protetto dal vetro della finestra: dentro di te un turbine di sentimenti, di emozioni e di paure, ma intanto godi dello spettacolo. E’ così che ti senti quando piangi durante un concerto, vero? Non è stupendo quel temporale che ti dilania l’anima, quei fulmini che ti squarciano il cuore, quei tuoni che ti stringono la gola fino a farti mancare il respiro?

Quando la mia adorata zia si è spenta, un mese fa, ho lasciato la mia stanza di Cracovia per due settimane. Non avrei potuto sopportare il suo sguardo fisso, l’immobilità delle sue pupille di cemento sopra il mio pianto. Era come se il mio cuore vivesse una vita propria, contraria alla mia, e mi divorasse dall’interno. Non potevo rimanere qui, ferma, a farmi sbranare poco per volta da questa voragine senza parole.
Così sono scappata su a Nord, fino a Tallin, da sola.
A Varsavia mi sono sciolta in una disperazione più grande di me, ho sentito le strade strillare sotto i miei piedi, ho vagato senza meta nella piazza piena di turisti e mi sono sentita un pezzo di carne vuoto e abbandonato.
Da Vilnius in poi mi sono riempita dei nuovi colori, dei nuovi volti, dei nuovi luoghi che ho visto, e il mio cuore pian piano ha ricominciato a battere per me, insieme a me, assecondando il mio ritmo.
Avevo paura di tornare a Cracovia: i luoghi hanno questa atroce capacità di assorbire i ricordi e di farli propri, di assumere personalità, di indossare sentimenti. Ho passato gli ultimi otto anni della mia vita vagabondando di città in città, di paese in paese, proprio per fuggire dai luoghi ormai riempiti di me, dalle intensità e dalle assenze che evocavano. Cercavo luoghi vergini e sconosciuti, li riempivo di me, e poi li fuggivo, come un amante irresponsabile e mascalzone.
Tu solo, caro Yoshi, sai che questa mia esistenza nomade, che molti considerano straordinaria, eccitante e avventurosa, in realtà ci può stare tutta, ranicchiata stretta stretta, tra le quattro lettere di un semplice e minuscolo concetto: fuga.

Ora sto bene, caro Yoshi. Non ti preoccupare per me, per favore.
Sono tornata a Cracovia per ora, sì, ma mi sono immersa nel mio lavoro, nei miei studi autodidattici, nelle mie piccole mete quotidiane.
Ho comperato una bellissima rivista di fotografia oggi, sai? Mi piace moltissimo, continuo a guardarla e a sfogliarla. Le sue pagine hanno una consistenza deliziosa quando le sfioro.
Ho un feticcio per la carta, lo sai: libri e riviste mi sembrano più vivi che mai, non posso fare a meno di accumularli e di amarli.
In questa rivista di fotografia certe immagini mi sembrano tanto sgargianti da essere quasi volgari, ma ce ne sono anche di molto intime e discrete. Tu sai quanto apprezzo la dolcezza e la semplicità, caro Yoshi.

Tu cos’hai fatto oggi, mio caro amico? Di che atmosfera ti sei circondato? Cos’hai pensato? O forse ti sei semplicemente lasciato scivolare sulla tua musica, lasciando alle tue note il compito di pensare per te?
Raccontami, ti prego.

Con tanto affetto.
Vera

13 ottobre 2015

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