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Lettera di Rosanna Dibosco

Caro,

ti scrivo alla luce del primo tramonto d’autunno. Sembra impossibile, lo so, ma dalle ore dieci e ventuno minuti di questa mattina è autunno, di nuovo.

La ruota delle stagioni ha completato il suo giro, da quando la nostra amicizia ha avuto inizio. Ma nulla è cambiato, nulla è migliorato, nulla si è risolto. Sono sempre qui, senza futuro, senza nemmeno un’idea di futuro, proprio come un anno fa, ma con qualche senso di colpa in più e con tanta vergogna in più. Non ci sono comunicazioni tra noi da un mese, ormai. L’ultima volta che ci siamo visti mi hai resa partecipe della tua decisione “intelligente”, così l’hai definita, stupendomi, perché fino a quella sera avevo ignorato che nella vita si possono, e forse si devono, prendere decisioni con intelligenza. Io ho sempre agito spinta dall’istinto o, ancor peggio, dai sentimenti, quegli stessi sentimenti che ora rifuggo come fossero crudeli sortilegi. E le conseguenze del mio errato agire sono sotto gli occhi di tutti: la mia zattera di legno imputridito sta andando alla deriva, inesorabilmente. Non ci sono le condizioni, mi hai detto. Come darti torto. E’ tutto talmente complicato che io stessa non ho una visione chiara della mia vita; non posso pretendere che un estraneo veda bagliori di luce e spazi aperti là, dove io stessa vedo solo una nera prigione, un dedalo di errori senza via d’uscita.

Forse ti ho costretto in una sala d’attesa, che è diventata a sua volta la tua prigione in questi mesi; ma non avevo intenzioni crudeli ed egoiste, credimi. Avevo solo bisogno di averti vicino, seppur in maniera non convenzionale.
Ti sentivo vicino nell’attesa di ricevere un tuo messaggio di saluto, ti sentivo vicino quando mi scrivevi di volermi vedere per bere qualcosa insieme.
Ma era impensabile che potesse continuare in quel modo perché, sebbene io mi sia assuefatta all’aria viziata di questa galera, tu meriti di essere libero, libero di conoscere una brava ragazza, con la fedina penale pulita, di cui ti possa innamorare, con la quale tu possa vivere un rapporto convenzionale e appagante, e progettare un futuro.

E io non avrò la forza di stare a guardare, quando tutto questo accadrà.
Non so se prima o poi ti verrà voglia di scrivermi ancora, ma mi auguro di no. Sarei combattuta tra il disperato bisogno di parlare ancora con te, per ore, davanti ad una birra, e la necessità di dirti che non è più possibile. Perché anch’io, ora, voglio agire con intelligenza.
Non posso sopportare altre umiliazioni, non posso presentarmi di nuovo a te vestita di stracci, non posso più guardarti negli occhi mentre ti dico che non ho ancora trovato un lavoro, non posso più guardarti negli occhi, semplicemente.
La libertà, in questa nostra società, è una libertà puramente economica, e si misura sulla possibilità di pagarsi un affitto. Ed io ora sono prigioniera della povertà. Non so se le cose cambieranno, nella migliore ipotesi non so quando cambieranno.

Ma io, e solo io, dovrò rimanere in questa sala d’attesa fino ad allora, nessuno dovrà dividere con me il conto dei miei errori. Non potrei sopportarlo.
Qualcuno ha detto che la fortuna di una persona è ciò che non gli è successo nella vita. Farò in modo di essere la tua fortuna, ciò che non ti è accaduto.

Ti scriverò ancora, anche se tu non lo saprai mai. Mentre la mia zattera si allontana dal tuo porto, affiderò le mie lettere a questo mare virtuale che mi circonda e mi inghiotte. Questo d’ora in poi sarà il mio modo di sentirti vicino.
Solo la Luna saprà quando è il momento di chiedere alle maree di ricondurmi a riva, di salvarmi.
Il cerchio è chiuso, è tempo di andare, amico mio.

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