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Lettera di Paola Muzi

Pregiatissimo Sig. Conte,
mi perdoni l’ardire di importunarLa con questa mia, che giunge a Lei da molto lontano, sia nel tempo che nello spazio. Non so ancora spiegarmi donde io sia riuscita a trarre il coraggio per scrivere queste povere righe, non essendo certamente la sottoscritta degna di presentarsi al Suo cospetto, considerata la grandezza del Destinatario di queste umili parole. Ma, essendo giunta fino a me la notizia della Sua generosità e della disponibilità del Suo Nobile Animo, m’illudo che Ella vorrà benignamente prestar loro il pur trascurabile interesse che il Suo giudizio ritiene esse meritino, senza che questo Le sia di troppa noia.
Mi appare superfluo confermarLe che la Sua grandezza ha varcato tutti i confini dello spazio e del tempo, e che la Sua Fama continuerà a splendere incontaminata per secoli e secoli ancora, cosa di cui è certamente a conoscenza, ovunque Ella sia.
E allora perché Le scrivo? Se tutti coloro che La conoscono e La amano Le indirizzassero lunghe lettere, o anche solo poche parole, Ella sarebbe subissata da tediosissime montagne di carta che, arrecandoLe incommensurabile fastidio, La porterebbero certamente a manifestare quei famosi momenti di ira o di insofferenza che i Suoi contemporanei ben conoscevano.
Mi perdoni ancora l’ardire, ma ho la presunzione di credere che io, forse, La amo un po’ di più. Non possiedo tanta abilità con la penna da poterLe spiegare quello che sento nell’animo. Le posso soltanto umilmente confessare che il primo brivido di emozione scatenato da un brano letterario l’ho provato quando, nei primi anni di apprendimento delle arti dello scrivere, avevo pressappoco una decina di anni, la mia insegnante lesse a noi bambini, discepoli di cui era precettrice, una poesia che mi sembrò bellissima. La imparai a memoria e mi chiesi chi avesse mai potuto scrivere quelle parole così pacate, così serene, ma così toccanti. Erano, quelli, pensieri di una bimba alla quale fino a quel momento erano stati proposti versi più simili a filastrocche e a cantilene.
Dimenticai, con il tempo, quella poesia, ma imparai a conoscere, tra gli altri autori della letteratura italiana, il Grande Giacomo Leopardi. Rimasi colpita e affascinata dai Suoi scritti più famosi, tanto da voler sapere di Lui più di quello che era proposto a noi dai programmi di didattica. E si mostrò ai miei occhi, nello “Zibaldone di Pensieri”, un lato umano che spesso risulta celato dalla Grandezza del Poeta.
Alcuni anni più tardi, quando volli acquistare un’edizione dei Suoi Canti, ritrovai, sotto il titolo “Imitazione”, l’avventura di quella foglia che tanto mi aveva colpito da bambina. Non sapevo chi ne fosse l’autore. E scoprirlo, con un misto di euforia e di tenerezza, mi rese ancora più consapevole del fatto che io La amavo a prescindere dalla grandezza del Suo nome.
Ella era stata capace di attrarmi con la magia delle Sue parole quando, bambina, ancora non sapevo nulla della Sua fama. E così mi sono ritrovata a leggere le Sue opere e quello che si diceva di Lei. Le confesso che mi sono anche impudicamente avventurata tra i Suoi scritti più intimi, in quello conosciuto come il Suo Epistolario; e sono state, forse, proprio quelle pagine ad avvicinarmi a Lei in modo così prepotente, a rendermi partecipe dei meno conosciuti moti del Suo animo, che già avevo visto trasparire dalle pagine dello Zibaldone, ma mostrandomi di essi il lato più segreto. Quante volte mi sono sorpresa a stringere forte a me quel libro, quando vi ritrovavo non solo il Poeta, il Filosofo, il Filologo, ma l’Uomo, con la sua forza e le sue debolezze, con le piccole noie del Suo vivere quotidiano, Pregiatissimo e Amatissimo Conte!
Sono rimasta soggiogata dalla Sua fierezza, dal Suo orgoglio, dalla Sua diffidenza verso quegli opportunisti che cercano di trarre il proprio tornaconto con comportamenti di apparente generosità, dal Suo disprezzo verso coloro che premiano la forma a discapito della sostanza. E, insospettato, si è rivelato ai miei occhi un Uomo arguto e affettuosamente ironico con le persone più care.
Ma ho conosciuto anche quello che, temo, una personalità fiera come la Sua non avrebbe mai voluto rendere noto ad un estraneo. Ma ahimé, io ormai so del Suo bisogno di amore, della Sua indole tenera, di quella Sua dolcezza nascosta forse ai più dal Suo carattere scontroso e un po’ ispido con chi non L’aggradava, la qual cosa non La rendeva certamente persona ricercata dai salotti mondani.
Ho amato molto i Suoi silenzi. Non soltanto le Sue parole. E La amo ancora, profondamente, nonostante questa distanza incommensurabile ci separi.
Se fosse stato qui, ora, probabilmente i grandi passi compiuti dalla scienza e dalla medicina avrebbero alleviato di molto i Suoi mali fisici. E soprattutto L’avrebbero aiutata in quei momenti di autentica sofferenza che il dover restare al buio per dare sollievo ai Suoi occhi Le provocava. Impacchi alle erbe, colliri, la guida di un buon medico oculista Le avrebbero risparmiato quelle tremende giornate trascorse nel buio più totale. Posso soltanto provare ad immaginare il Suo tormento, la Sua insofferenza, il Suo dolore.
Ma non c’ero. Non avrei potuto comunque portarLe il conforto di una presenza che deve credere amica e disinteressata. Di persone che Le volevano bene ne aveva tante attorno a sé. Non posso certo avere la presunzione di credere che la mia umile compagnia Le avrebbe giovato. Che mi avrebbe onorato della Sua amicizia. Non sarebbe stato possibile considerato che, come Ella afferma, l’amicizia può nascere solo tra persone di pari ingegno. Le confesso soltanto che, indegnamente, avrei voluto esserLe vicino. Anche tacendo. O copiando i Suoi scritti, o scrivendo le Sue parole sotto dettatura, confortandoLa con piccole attenzioni.
Conosco però quanto Le venissero a noia le premure non desiderate. Sarei riuscita a non arrecarLe fastidio? Non lo so. A volte si riesce ad essere invadenti e petulanti senza volerlo; solo per il troppo amore.
L’unica cosa che ci accomuna, forse, è la passione per i gelati. Qualche sorbetto o gremolata da gustare insieme, nonostante una compagnia tanto indegna, forse lo avrebbe gradito.
Altro non credo di poter avere in comune con un Grande la cui gloria solca lo spazio e il tempo. Ma avrei voluto esserci. Avrei voluto avere l’onore di conoscerLa, di stringerLe la mano. O solo di inchinarmi umilmente al Suo cospetto.
L’amore sarebbe rimasto taciuto.
Troppo grande la mia timidezza per perforare il silenzio e la diffidenza, per affrontare il timore di un gesto d’insofferenza da parte di una persona le cui stima e considerazione si ritengono importantissime. E allora si tace, lasciando che le emozioni restino mute.
A volte si commettono imperdonabili errori con questi silenzi. Si rischia di lasciarsi sfuggire di mano situazioni e persone preziosissime, per le quali le nostre emozioni resteranno sconosciute, ma che, se fossero venute allo scoperto, avrebbero regalato a loro e a noi stessi dei momenti di autentica ricchezza. Dunque è importante dichiararli, i nostri sentimenti.
Il renderli noti, forse, potrà farci respingere bruscamente da chi ci ritiene inopportuni o non degni di essere ricambiati. Ma essi, ne sono certa, s’insinuano insidiosamente nell’animo di chi ci ha respinto e, repentinamente, a distanza di tempo, quando si crede di averli dimenticati, ritornano inaspettatamente a galla, e colui che ci ha rifiutato o respinto tornerà a pensare a noi, e sarà colto da una violenta nostalgia e da un acuto rimpianto. Noi forse non ci saremo, o avremo perso completamente interesse verso colui che prima tanto bramavamo, ma i nostri sentimenti, le nostre emozioni, come goccia che scava la pietra, avranno fatto breccia nell’anima del nostro oggetto d’amore.
Non ho l’ardire di sperare che questo accada anche per me. Che questo amore tanto impossibile si renda un giorno tangibile. Ma sono certa che questo è accaduto per Lei. Coloro che hanno respinto i Suoi, di sentimenti, si saranno ritrovati a dover combattere con la loro anima dilaniata dal rimorso e dal rimpianto per non averLa saputa apprezzare e accettare.
La prego di perdonare ancora l’audacia di queste parole. Se vorrà leggerle io mi riterrò felice e lusingata. Le confesso che mai avrei pensato di osare tanto.
Quella “Lettera a un giovane del ventesimo secolo” che Ella aveva in animo di scrivere non è stata mai data alle stampe ma, se fosse stata scritta, i giovani ai quali era destinata avrebbero comunque avuto modo di conoscerla. Il tempo scorreva verso di loro. Essa sarebbe giunta dal passato al presente. Queste mie umili parole giungeranno mai a Lei? Temo di no; a meno di travolgenti scoperte della fisica in grado di sovvertire l’incontestabile cronologia spazio-temporale, questo non accadrà. Il tempo non scorre a ritroso. Ma voglio illudermi che per qualche arcano Le possa giungere notizia di un amore lontanissimo che Ella è stata capace di suscitare in una donna che ormai è già nel ventunesimo secolo.
E questa non è solo una conferma che il Suo desiderio di essere conosciuto dalle generazioni future è stato appagato. E’ la prova che il tempo e lo spazio sono mere illusioni. Io, in questo momento, Le sono accanto nei suoi anni vissuti nei primi decenni del 1800, ed Ella è qui con me ora, ed io mi sono fregiata dell’immenso onore della Sua Presenza che mi ha accompagnato negli ultimi scampoli dello scorso ventesimo secolo fino a varcare la soglia dell’anno 2000 e vivere queste prime gocce di quel ventunesimo secolo che chissà quanto doveva apparire lontano ai suoi contemporanei.
La sento infinitamente vicino, mio Pregiatissimo e Carissimo Conte Giacomo, nonostante le distanze apparenti. E credo che i sentimenti che Ella suscita in me non siano poi così diversi da quel turbinio di emozioni che per brevità viene dai più chiamato Amore.
Prendo, con Suo sollievo, commiato da Lei.
Confidando nella Sua clemenza La Prego di voler perdonare la sfrontatezza e l’irriverenza di queste righe, e di concedermi la gioia di potermi considerare eternamente e devotamente Sua
Paola Muzi

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