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Lettera di Anna De Miccolis Angelini

Caro P,

Mi hai detto: “Non ti sento mai tutta mia” e c’era rimprovero nella tua voce, come stessi accusandomi di volerti sottrarre a forza qualcosa di cui non trovi accesso senza il mio aiuto. Fluttuavamo, ognuno sui propri pensieri, nella vacua spossatezza del dopo, quando parlare è la cosa più sbagliata del mondo. L’analisi dell’amore appena consumato è senza volerlo crudele, le parole hanno il freddo dei ferri chirurgici, facilmente si incrina il tenue guscio che ancora tiene insieme un tutto che si giustifica da sé. Una volta rotto, i pezzi isolati e scomposti non reggono l’incanto, solitari risultano scuciti e banali. L’amore che si fa banale non sembra più amore.

Tu detesti certe mie reticenze, ironizzi su qualche mio pudore.
Hai l’aria di credere che si tratti di una forma di avarizia di me, che ti esercito contro per uno scopo oscuro.

E non te ne dai pace, ti mostri offeso, peggio lo sei davvero. Io vorrei riuscire a spiegarti, ma capiresti meglio se fossi una donna. Ogni volta che l’ho tentato mi hai opposto obiezioni cosi concrete, cosi maschili, da scoraggiarmi, tanto erano lontane dalla nebulosità di ciò che provo e in cui metto, però, una fede tutta istintiva.

Non me ne rammarico troppo. Un uomo e una donna che usassero lo stesso linguaggio per ragionare finirebbero per trovarsi a vicenda poco stimolanti, troppo simili per sentirsi attratti. Né mi impaurisce che i miei argomenti femminili non arrivino a persuaderti perché questo non ci impedirà di amarci. Ed io desidero che continuiamo ad amarci come ora, anche con qualche tormento. Ci sono cose nell’amore per le quali non serve la sapienza degli altri. Si imparano quando si sono patite e pagate, e il prezzo è tanto più alto quanto più il cuore vi si trova coinvolto. Io qualcuna la so, forse meglio di te perché la mia sola esperienza precedente è stata molto più profonda delle tante in cui ti sei diviso tu prima di conoscermi.

Che c’era stato un altro l’hai saputo subito, te l’ho detto prima ancora che la cosa cominciasse a farsi seria. Non sai invece come c’era stato. Ho aggiunto, è vero, che si era trattato di un legame di quelli che contano, che lasciano il segno. Ricordo che te ne parlavo con l’orgoglio dolente di chi è stato ad una guerra ed è tornato sconfitto, nonostante i suoi sforzi. Per niente al mondo avrei sconfessato un lungo tempo nel quale avevo profuso me stessa. Tu stavi a sentirmi annuendo, imbarazzato da quella confessione che poteva sembrare arrogante per il tono con cui te la offrivo. Ma poi, forse, le hai visto sotto ferite troppo brucianti e recenti per essere portate alla luce e ha lasciato che il discorso morisse. All’inizio l’amore è capace di queste generosità, già appagato da quanto sta per raggiungere.

Con il passare del tempo ti sei convinto che non metteva conto di riprenderlo, sapevi che la cosa mi era caduta dal cuore, e ciò che portavo a te era fresco e nuovo, non somigliava a niente. È cosi infatti. Quello che ti do è solo tuo, nessun amore ha il sapore di un altro. In me è rimasto solo il solco, la lezione imparata sul vivo, lo stupore per il ricordo di una sofferenza ormai lontana, eppure non cancellata. Mi è rimasta la voglia di chiedermi il perché di un esito infelice quando avevo tentato tutto perché invece fosse felice.

È una curiosità umana, conclusa in se stessa, che non può offenderti. Io vorrei saper soprattutto perché l’insuccesso non abbia a ripetersi, facendo il solco più profondo, difficilmente colmabile.
Non voglio perderti. Ti amo perché mi hai indotta ad amarti quando non mi credevo disponibile per altri sentimenti che non fossero amarezza e paura. Ti amo perché sei tu e per altre cento cose che ancora sei tu, scomposto e ricomposto nella mia tenerezza. Il tuo modo di muoverti, le tue mani, la tua voce nel telefono così calda e vicina nel dire il mio nome. In ognuna di queste ti ritrovo.

Tu lo sai, l’hai capito. Eppure mi rimproveri che dici che fatico a mostrarlo; ti lamenti di ogni mio ritegno, ti arrabbi, e la cosa mi intenerisce. Eppure non riesco ad essere diversa. Quando mi abbandono c’è sempre un punto oltre il quale non so andare, se lo supero accade dentro di me e tu non te ne accorgi. Io non so il perché. Una volta ero diversa, e non me ne è venuto alcun bene. Vivevo il mio amore difficile con enorme spreco di forze, avevo l’anima sempre negli occhi, sulla punta delle dita, la mettevo in ogni gesto o parola. Conoscevo così poco della natura umana da commettere l’errore di ritenermi al riparo dall’inesorabilità di alcune regole, solo perché la forza del mio sentimento mi sembrava invincibile. Ma quelle regole sfidate sono proprio fisse, insofferenti a farsi modificare dalle nostre velleitarie intenzioni. E mi ci sono scontrata da sicura perdente. Lui era un uomo strano, troppo per la mia inesperienza. Alternava momenti di trabocchevole amore ad altri in cui appariva infastidito dalla mia presenza. Non riusciva ad amarmi con semplicità, c’era nel suo carattere il maligno bisogno di esercitare un potere su di me per convincersi che gli appartenevo. Non mi risparmiava una prova, non mi concedeva una tregua. Si servì della gelosia per indurmi a rinunciare ad ogni altro rapporto, amiche e amici, lo disturbava quasi nella stessa misura.

Mi fece il vuoto intorno, vivevo solo di lui. Si rivalse alla mia tenerezza mostrandomi squarci di uno sbandamento pauroso, rari ma rivelatori di un’estrema inquietudine. Li richiudeva in fretta ma non abbastanza perché non mi accendessi dal desiderio di venirgli in aiuto.
Avevo imparato ad adeguarmi ai suoi stati d’animo con la prontezza di chi ha già rinunciato ad essere se stessa. Ero via via l’amante, la compagna, la madre. Diventavo tutto. Intercalavo la passione alla tenerezza, inventavo una capacità ricettiva che ero lontana dal riconoscere mia, perdonavo, abdicavo, cedevo.

Una spirale discendente che pareva non aver fine e per lui era una spirale ascendente che andava delirando nel dominio. Queste cose non si possono dire a chi ha l’avventura di amarci dopo una simile vicenda.
Sono materia da soliloquio, la loro vita resistente e cattiva si nutre della solitudine più segreta. Per uno che stesse a guardare la cosa con freddi occhi estranei il sacrificio della dignità è il più difficile da giustificare. Tanta abnorme arrendevolezza susciterebbe più diffidenza che comprensione. Se per giunta chi sta giudicando ama non può che sentirsene scostato, escluso, e soffrirne.

Andò a finire nel peggiore dei modi, che era il solo prevedibile. La mia dedizione venne a noia, non c’era più niente da scoprire in me, non interessavo nemmeno come vittima. Lui provava qualche esitazione a lasciarmi solo perché era lo stesso che cedermi ad un altro in futuro.
Ero l’oggetto usato che si è riluttanti a buttare, si preferisce dimenticarlo in un cassetto, ancora nostro. Prese a cercare altre che avessero il merito di essere nuove e non arrendevoli, almeno nella fase iniziale. Io con estrema fatica trovai la forza di uscire da quell’inutile spreco, da quella mostruosa dissipazione affettiva. Ero in pezzi, e per un confuso tempo di angoscia disperai di riprendermi. Poi sei venuto tu. Con le tue logiche pretese espresse dall’amore con una diversa visione delle possibilità di un legame costante tra un uomo e una donna. Io non voglio opporti il mio caso limite, mi rendo conto che si collocava da sé fuori dalla norma. Eppure nell’istintiva avversione per ogni forma di totale abbandono io riconosco l’errore allora commesso. La troppa dedizione, la rinuncia a quel margine misterioso e svincolato da tutto che è il fascino della personalità mi avevano esposto alla sconfitta.

Niente è semplice in amore, fantasmi di insidie si nascondono anche dentro le migliore tentazioni. Tua del tutto, tua senza riserve finirei per toglierti il piacere sempre desto della conquista, il gusto della scoperta. Almeno questo l’ho imparato. Non è nella natura maschile apprezzare ciò che è troppo a portata di mano. L’oscillare in una piccola incertezza, in qualche perplessità è necessario alla loro smania di convincersi che ciò che stanno conquistando non è accettabile a tutti. Ogni vantaggio raggiunto diventa prezioso, ogni passo avanti arricchisce il traguardo. Chi continua la corsa quando il traguardo è già guadagnato? Amore, finchè avrò qualcosa da lasciarti scoprire tu mi amerai. E non intendo che mi concederò con il contagocce, sarebbe davvero avarizia. Ma, anche abbandonandomi, voglio salvare un breve spazio dove tu possa far correre la tua fantasia. Poco di me che ti viene sottratto ti sarà sempre davanti, a chiederti di raggiungerlo. Forse ora non lo capisci, ma è un regalo che ti faccio come se ti agitassi sotto gli occhi un raggio di felicità ogni volta ancora nuovo, e ancora possibile.

E.E.

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