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Lettera di Anna Chiara Venturini

Cara Ersilia,

Sento ancora sul collo un piacevole soffio d’aria fresca ed una voce che dice: โ€œ…Mi sente ?… Mi puรฒ sentire ?……….โ€. Quando mi sono svegliata dopo l’anestesia, cercavo di ricordare perchรฉ mi trovassi lรฌ. Avevano detto che dentro di me c’era qualcosa che era meglio togliere, perchรฉ a lasciarla cosรฌ quella cosa avrebbe fatto solo danni. Il peggio era quindi passato, la degenza sarebbe stata breve salvo complicanze. La fragilitร  di quei momenti costringe a pensar meglio. Ero circondata da pareti bianche, lenzuola bianche, camici bianchi, tutto sapeva di bianco eccetto l’orribile pavimento di linoleum aragosta, un pugno negli occhi. Quando si รจ allettati, anche i rumori diventano un lusso per lโ€™immaginazione. Le ore di degenza sono scandite da drenaggi, visite dei medici, dosaggi e farmaci, ma la speranza di mettere qualcosa sotto i denti viene sempre rimandata.

Poi sei arrivata tu, Ersilia, un donnino con cui ho ho condiviso la stanza nei giorni di ricovero. Capelli bianchissimi e dritti come una spazzola rovesciata, da far invidia ad un adolescente punk. Dentro ai tuoi 87 anni, un sorriso garbato, ringiovanito da una bianchissima dentiera, con quei tuoi due occhietti vispi dietro la montatura dorata che ti dava un tocco vintage.

Ricordi? ci salutammo con un cenno del capo, rimandando la conoscenza a piรน tardi. Sapevi che ero appena stata operata. Te n’eri accorta subito per via dei riflessi rallentati. Ne sapevi eccome di ricoveri e di ospedali, molto piรน di quanto immaginassi, ma lo capii dopo.
L’infermiera ti sistemรฒ il letto mettendo i vestiti nell’armadio. Quando mi svegliai del tutto tu invece ti addormentasti. Non era piรน orario di ricevimento e i parenti se ne erano andati. Chi tra i ricoverati aveva potuto farlo, aveva giร  consumato la cena. Io, con la fame che mi ritrovavo, avevo un assillante miraggio di fumanti tagliatelle col ragรน. Piano piano, mente e corpo tornarono amici e guardai il groviglio di fili della flebo e del drenaggio. Ero incerta se assomigliavo di piรน ad una centralina elettrica o ad un palo della luce.

Sul tuo comodino avevi appoggiato un rosario di perline azzurre, la settimana enigmistica e una di quelle penne che -mi spiegasti poi piรน tardi con dovizia di particolari- usano i cruciverbisti, un compromesso fra la bic e la matita, con il gommino in cima al cappuccio. Ti guardavo in controluce mentre dormivi, avevi il respiro leggero di una bambina, ansimavi tenendo il risvolto del lenzuolo allโ€™altezza del naso. Nel sonno non parlasti, forse non sognasti neppure, tossivi e facevi gnam gnam come se stessi assaggiando un lecca lecca. Assomigliavi a tutte le nonne belle del mondo.
Allungai lo sguardo oltre la finestra: il nulla, perchรฉ quellโ€™ala dell’ospedale in cui eravamo ricoverate stava tra due torri di cemento. L’unica luce proveniva da un altissimo riflettore che faceva giorno anche quando era buio.

Ti svegliasti e mi salutasti. Tu, chiusa nel tuo pigiama con quelle minuscole giraffe, lanciate al galoppo nel tessuto come coriandoli su un corpo senza piรน rotonditร , facevi tenerezza. Ai piedi, un paio di calze di lana sottile e ciabatte rosa. Ti infilasti la vestaglia bordeaux, venendoti a sedere sulla poltrona di fianco al mio letto. Cercavi un primo contatto e mi chiamasti per nome. La cosa mi sorprese poi capii che l’avevi letto sulla cartella clinica lasciata dall’infermiera. Mi chiedesti se avevo bisogno di qualcosa. Ti tranquillizzai. Cominciasti allora, e senza che te l’avessi chiesto, a parlarmi di te, dei tuoi acciacchi e della tua famiglia, di una vita spesa fra dolori, la perdita degli affetti piรน cari, un lavoro da contadina che ti aveva visto impegnata ogni giorno, dall’alba al tramonto, nei campi dietro casa, massacrandoti le spalle al punto da smettere di lavorare la terra, badando solo ai figli e alle amate galline, che regalavano uova fresche senza chiedere nulla in cambio. Mi raccontasti di tuo marito Luigi. So che, se la vostra vita avesse mai avuto un colore, sarebbe stato rosso come la rosa che avevi sfilato dal mazzo che tuo figlio ti aveva portato in ospedale e che, mentre ancora dormivo, avevi sistemato in un vaso improvvisato, tagliando a metร  una bottiglia di plastica. Ti piaceva l’idea di farmela trovare al mio risveglio.

Mi raccontasti di tuo nipotino di cinque anni, dei suoi abbracci e delle insperate soddisfazioni. Mi dicesti che c’erano sere in cui ti chiamava al citofono e ti invitava a salire. Abitavate uno sopra l’altra. Apparecchiava sempre anche per te, mettendo il cucchiaio col manico azzurro a pois bianchi che ti piaceva tanto quando in tavola c’era zuppa di fagioli. Ti guardai mentre raccontavi e ti commuovevi, stringendo forte il rosario tra le dita.

Guardando il tuo profilo, mi accorsi che avevi l’apparecchio acustico e allora capii il perchรฉ del tono forte che usavi. Forse in quei momenti i tuoi racconti li avranno sentiti anche i ricoverati delle stanze vicine: pazienza, male non gli avrร  fatto, perchรฉ le cose che stavi dicendo erano cose vere, vissute, piene di amore. La miglior medicina era ascoltarle.

Insieme abbiamo capito che le necessitร  fanno incontrare e il nostro dialogo continuรฒ a lungo. Ti facevo domande, mentre la goccia della flebo scendeva, lentamente, lentamente, giocando all’infinito con la mia pazienza. Apprezzavi che qualcuno ti ascoltasse parlare. Eri rimasta vedova e avevi perso da poco anche l’unica sorella, cui eri legatissima. Mi mostrasti due santini chiusi nella bustina delle medicine sul comodino. Erano stropicciati e li lisciasti con le mani, coprendoli di baci. Il tono della tua voce era rotto dalla commozione.

Ti ricordi quando dalla porta della stanza spuntรฒ il chirurgo che mi aveva operato per sentire come stavo? Complessivamente in risalita, gli dissi. Lui mi strizzรฒ lโ€™occhiolino e ti salutรฒ e tu lo ricambiasti con prontezza e cortesia.
Lร  dentro le ore passarono lentamente come i tuoi passi, quando ti avvicinavi al letto per chiedermi come andava. Il mattino dopo provarono ad alzarmi, avevo bisogno di sgranchirmi gambe e braccia. Mi sedettero sul letto, ma la testa mi girava troppo. Mentre ti voltavo le spalle, sentivo i tuoi occhi fissi sulla mia schiena, uguali a quelli di una madre per la figlia.

Se la sente davvero di alzarsi? Mi domandรฒ l’infermiera. Dondolai la testa per dire no, non riuscivo a fare altro, ero frastornata e debolissima. La voce di chi mi stava interrogando si faceva sempre piรน lontana e una cascata di sudori freddi mi aggredรฌ schiena, collo e viso. Sto svenendo, tenetemi gente, tenetemi. Mi riadagiarono sul letto con le gambe sollevate. Nessuna preoccupazione, mi dissero che era naturale dopo l’intervento. Adesso si riposi e piรน tardi ci riproveremo. E tu sei rimasta a guardare, immobile, con le gambe a penzoloni giรน dal letto. Quando mi ripresi, ti ringraziai e tu mi rispondesti che era il minimo che avresti potuto fare per me. Avere in stanza una persona piรน giovane ti faceva dimenticare tutti i guai. Ti chiesi perchรฉ ti avevano dimessa dal reparto geriatrico, trasferendoti al chirurgico, e tu mi rispondesti che avevano individuato uno strano alone scuro vicino al tuo colon e che dovevano fare ulteriori accertamenti. Tu avresti voluto tornare a casa, ma avevi deciso di restare per non creare trambusto ai tuoi familiari. Lo dicesti con tono rassegnato, privo di luce.

Da quel momento e per tutte le ore nelle quali rimanemmo insieme non sei piรน stata la stessa, perchรฉ cominciasti a parlare di te come di una povera persona, condannata a finire i propri giorni in ospedale, a non vedere piรน le tue galline. Ti commiseravi dicendo che la mia operazione, al confronto di quella che ti avrebbero dovuto fare, era stata niente e che dovevo ritenermi superfortunata. Che potevo dirti, cara Ersilia, incassavo e me ne stavo zitta, in fin dei conti avevi ragione. Piangevi ed eri preoccupata. Ti tornavano in mente le parole di tuo figlio โ€œMamma, la casa รจ vuota senza di te. Torna a casa al piรน prestoโ€, come se dipendesse da te, con il risultato che parlavi ancora di te come di una povera vecchia, incapace di stare al mondo senza creare problemi e che avrebbero dovuto aiutare per sempre perchรฉ stavi diventando troppo distratta. Ti promisi che, appena fossi riuscita ad alzarmi da quel letto, saremmo andate a fare due passi nei corridoi del reparto, sognando i larghi viali parigini, giusto per distrarci un po’.
Poi parlammo di cucina e dei tuoi piatti forti. Quando piรน tardi entrรฒ il chirurgo, ci sorprese mentre parlavamo di ragรน, di carne buona da condire con un goccio di vino rosso. Ti chiese la ricetta perchรฉ la voleva dare alle ragazze del suo staff, accanite frequentatrici di Mcdonald’s, del tutto incapaci di tenere in mano un mestolo. Glielo promettesti immediatamente e il chirurgo ti strappรฒ un sorriso. Mi disse che l’indomani mi avrebbero dimesso. Alla mia felicitร  non corrispose la tua, che ti facesti seria. Restare per te voleva dire che le cose non erano ancora iniziate, senza sapere cosa avrebbero potuto trovare dietro quell’ombra del colon e quando saresti tornata a casa da tuo nipotino.

Mi venne spontaneo abbracciarti, piccola come eri nel tuo pigiama di giraffe rosa e azzurre. Ti augurasti, nelle successive giornate di ricovero, di avere un’altra compagna di stanza come me, giovane e piacevole perchรฉ cosรฌ -mi dicevi- ti ero sembrata fin dal primo momento. Ma continuavi ad essere preoccupata per lโ€™esame che ti dovevano fare l’indomani. Quando arrivรฒ lโ€™infermiera, per provarti la pressione, ti trovรฒ agitata e in lacrime. Allora la presi in disparte e le dissi che eri in ansia per lโ€™esame in programma. Lโ€™infermiera capรฌ la situazione, si avvicinรฒ al tuo letto, spiegandoti con calma e professionalitร  in cosa sarebbe consistito lโ€™esame, che era diverso dal precedente, meno invasivo. Ti avrebbero fatto una panoramica allโ€™addome, nientโ€™altro che una fotografia. Sembrava averti convinto e smettesti di piangere. Adesso che sapevi, eri molto piรน tranquilla.

Pienamente in forma e rifocillata, ti chiesi se avevi voglia di accompagnarmi a fare una passeggiata nei corridoi del reparto. Sulle prime dicesti di no, ma insistetti. Non puoi rifiutarti, perchรฉ con quella vestaglia e quelle babbucce rosa farai sicuramente innamorare qualcuno degli infermieri di guardia! Alla fine ti lasciasti convincere, ti presi sotto braccio e cominciammo la nostra passeggiata nei corridoi dell’ospedale, con la stessa eleganza di due demoiselles impegnate in una promenade sui Champs Elisรฉes di Parigi. E la tua depressione sembrรฒ svaporare. Trovammo il tempo di scherzare sulla circostanza. Ci fermammo di fronte alla macchinetta di bevande per fare la classifica di quelle piรน buone. Vincesti tu con lโ€™Oransoda, di cui eri golosa. Mi confessasti che ne bevevi una di nascosto con tuo nipotino, quando lo andavi a prendere da scuola.

Tornammo in stanza per prepararci per la notte. Tu non avevi sonno ed uscisti. Mi sembrรฒ strano perchรฉ da quando ci eravamo conosciute, cara Ersilia, non avevi mai messo naso fuori dalla porta. Ti chiamai, ma non ti fermasti, riuscii perรฒ ad intravvedere nell’espressione del viso di nuovo quella luce spenta, figlia della depressione.

Ti ricordi quanto fermento c’era stato quella sera in reparto? Ricoverarono anche un uomo in fin di vita. Tu tardavi a rientrare in stanza e non ero affatto tranquilla, ma non volevo creare problemi agli infermieri, che vedevo assorbiti nel soccorso, perciรฒ non li chiamai. Mi rimisi in verticale, indossai la vestaglia pensando dove venirti a cercare. La struttura ospedaliera aveva ballatoi esterni in ogni piano, che si affacciavano per molti metri di altezza sui parcheggi sottostanti, dove solitamente andavano a fumare. Ti assicuro, Ersilia, che in quel momento mi assalรฌ un pensiero pesantissimo, rivedevo quel velo di depressione sul tuo viso, di chi non vede piรน futuro davanti a sรฉ.

Uscii dalla stanza e cominciai a sbirciare in quelle vicine, pensando che magari potevi essere andata lรฌ a dare la buonanotte a qualche altro ricoverato, ma non ti trovai e pensai al peggio. Ersilia dove sei, non fare sciocchezze. Mi allungai verso la macchinetta delle bevande, niente. Tornai indietro accusando ad ogni passo sempre piรน stanchezza, sentivo i punti tirare, le gambe deboli. Mi allungai fino alla sala d’attesa del reparto con la porta semichiusa. Eri lรฌ, Ersilia, eri lรฌ, seduta sulla poltrona rossa, che guardavi la televisione. Sprofondata nei cuscini, emanavi una dolcezza che ti restituiva bambina ai miei occhi e ai tuoi anni. Non ti disturberรฒ pensai, tirando un dannato respiro di sollievo.

Tornai in camera scivolando sotto le lenzuola con movimenti impacciati e qualche dolore in piรน. Ritornasti dopo neanche dieci minuti, silenziosissima. Non le racconterรฒ che mi ha fatto preoccupare pensai e feci finta di dormire. Ti sfilasti la vestaglia, tuffasti la dentiera nel bicchiere ed entrasti nel letto. La luce del corridoio era giร  stata abbassata e tu non ti accorgesti che ti stavo guardando. Cominciasti a sussurrare qualcosa, a bassa voce, sotto il lenzuolo. Sul momento non riuscii a decifrare nulla, poi catturai al volo una frase familiare: “…angelo santo vegliami accanto… copri con le ali ..salva dai mali…nel suo lettino il tuo bambino…โ€ . Stavi recitando le preghiere, piรน tardi riconobbi lโ€™Ave Maria, il Padre Nostro e un cantilenante Eterno riposo, che chiuse il tuo bisbigliare. Nella stanza calรฒ il silenzio, interrotto solo dal tuo stanco respiro. Al mattino sostenevi di non aver chiuso occhio e di essere andata dentro e fuori dal bagno. In realtร  avevi dormito molto piรน di me. Mi sembrasti rilassata.

Arrivรฒ il momento delle mie dimissioni. Ero pronta e rivestita, senza piรน fili di flebo. Ti salutai con un abbraccio, lasciandoti alle parole crociate, seduta sul tavolino mentre bisbigliavi le domande e anticipavi le risposte riempiendo con la matita magica le caselle vuote del cruciverba.
Chissร  se tuo nipotino questa sera apparecchierร  la tavola anche per te, mettendo il cucchiaio col manico azzurro che ti piace tanto quando in tavola c’รจ zuppa di fagioli? Sono sicura che lo farร , aspettando l’Oransoda. Contaci, cara Ersilia.
Ti abbraccio forte.

Costanza

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