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Lettera a un amore che non fu di Lisa Pitrolo

Caro,

Ho visto un trifoglio, ieri, lungo il viale che separa la mia residenza e l’università. E quindi niente, il mio pensiero ha corso a perdifiato fino a te, annullando i chilometri in un millesimo di secondo, come una volta avremmo voluto poter fare noi.

No. Non starmi a sentire. Sto mentendo. Noi scrittori sappiamo essere dei gran bugiardi, sai? Ricamare per aria e farlo sembrare convincente. È il nostro mestiere. Creare dal nulla. Giocare con quello che è immateriale, giocare con le parole.

La verità è che non c’era nessun trifoglio, sul viale che separa la mia residenza e l’università, e quindi ti ho mentito. Oddio, può anche darsi che un trifoglio ci fosse, ma io ero in ritardo, come al solito, la lezione era iniziata e la mia bocca sapeva ancora di caffè, e quindi non avevo proprio tempo per mettermi a fissare le aiuole. Ma mi serviva un inizio poetico per la mia lettera, tutto qui. Dovevo ricamarla. Uno si aspetta che uno scrittore si accorga sempre di ogni trifoglio accanto cui passa, ma sappiamo essere incuranti anche noi, eccome se ci riusciamo. A volte ci riesce talmente facile che ci fa paura. E quando abbiamo paura lo scriviamo. Quando facciamo una stronzata superficiale, la scriviamo. Perché così possiamo giustificarla, tramutarla in qualcosa di poetico, qualcosa che ha del significato, nel profondo. Mentiamo di nuovo. Mentiamo anche a noi stessi, lo facciamo di continuo. Non per cattiveria, siamo smaliziati. Lo facciamo perché ne abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di sentirci diversi dagli altri, di romanzarci la vita.

Io, per esempio, negli ultimi mesi, di stronzate superficiali ne ho fatte più che nei vent’anni che ho alle spalle. Ma una ragazza le cazzate le fa a vent’anni, quando se no? Quando vivi coi tuoi genitori sei coscienziosa senza neanche rendertene conto, pure che non fai che fissare il soffitto della tua stanzetta infantile, ogni notte, e sognare il giorno in cui finalmente la stringerai a te, l’indipendenza. Ecco, quando ce l’hai, sei talmente entusiasta, che la vuoi esplorare a pieno e quindi ogni mattino, prima di prendere quel caffè al volo e arrivare a lezione puntualmente in ritardo, ti svegli col trucco della sera prima a impiastricciare il tuo viso e il tuo cuscino, il mal di testa tipico dei postumi della sbronza e, tra le lenzuola che ti ha mandato mamma, un ragazzo che conosci a mala pena. Capisci che questa cosa dell’indipendenza e dei vent’anni ti è sfuggita di mano e passi la giornata a scrivere poesie per lenire il senso di colpa che deriva dalla tua frivolezza, ma ogni notte la cosa si ripete, perché in fondo la superficialità, per chi è abituato a sentire tutto e troppo sulla propria pelle, diviene una droga; dose dopo dose, ti illudi di esser guarita dalla tua personalità, come fosse una malattia. Non te ne accorgi mica che è come fuggire correndo su un tapis roulant.

Io che del sesso senza amore non ne volevo sapere. Io che pensavo non avrei mai fumato. Invece l’ho fatto, ho iniziato a fumare, ci crederesti? Ne ho fatte di cose autolesioniste, da che ci siamo detti addio. Ricordo quando incoraggiavo te a smettere, te che mi raccontavi di aver iniziato quando ti avevano spezzato il cuore. Avrò iniziato anche io per questo? Mi è bastato chiedermelo una volta, per avere una risposta. No. Decisamente no. Insomma, sarebbe poetico da ammettere, per carità, la scrittrice che è in me, al momento, sta sbraitando perché sono troppo sincera e troppo superficiale, pensa che dovrei rispondere di sì, che ho iniziato a fumare perché mi avevi fatto il cuore a pezzi, ma sono stronzate. Avrò iniziato per darmi un tono. Perché studiando letteratura e le grandi scrittrici del passato, il mio occhio sarà caduto su troppe foto in cui avevano un bastoncino bianco fumante in mano e le avrò trovate affascinanti e da imitare. Ho di sicuro iniziato a fumare per un motivo superficiale del cazzo come tutti, come secondo me hai fatto anche tu, ma se nel racconto della tua vita vuoi che stia scritto che lo hai fatto perché ti avevano spezzato il cuore, che ben venga, in fondo sei tu ad avere in mano la penna, sei tu a scriver della tua vita. Dico bene?

Lo so, la mia schiettezza è disarmante, ogni tanto, e non sono nemmeno ubriaca, al momento. Mi domando se ti piaceva. Ti piaceva il modo diretto con cui ti dicevo le cose? Ti piaceva il modo in cui ammettevo di tenere a te, di esser pazza di te? Uno cresce sentendosi ripetere che per attrarre qualcuno bisogna avvolgersi attorno un alone di mistero, censurare ciò che si pensa al momento in cui lo si dice, censurare sé stessi, perché le persone fuggono quando sei troppo sincero, sono spaventate dalla verità. Ma io non volevo avere paura, quando ti ho conosciuto, e non volevo che tu avessi paura di me. Volevo solo che mi vedessi. Volevo che mi vedessi per davvero e quindi ho preso un bel respiro e ho urlato un vaffanculo alle convenzioni, alle tattiche, a quelle stupide strategie. Perché avevo un solo desiderio: che tra di noi fosse vero. Perché, ammettiamolo, era già abbastanza complicata in sé, la nostra relazione, quindi avevo bisogno di avere la certezza che valesse la pena. Non c’era tempo per nasconderci dietro qualche maschera, di quelle ne indossiamo a sufficienza quando giriamo per strada. A dirla tutta, non avevo la pazienza di indossarne una anche con te. L’ho messa via, a costo di perderti. Che tanto, mi dicevo, non avrei perso nulla, se poi non ti fossi piaciuta. Non si può mica piacere a tutti.

Però l’amore rende incoerenti e quindi, qualche volta, più tardi, qualche mascherina carnevalesca l’ho indossata anch’io, quando si trattava di te. Per esempio, quando mi sono resa conto d’amarti. Ce n’è voluto di tempo, prima di confessartelo. Tu, ovviamente, non lo sai, magari pensi che l’abbia realizzato nell’arco di quella giornata o quella sera stessa, quando parlavamo al telefono. Che tra un promemoria per il giorno successivo e l’altro, avrò pensato “mi sa che io ‘sto ragazzo lo amo”. Ma non è così che è andata. È andata che tutti quei Carpe Diem e quelle frasette buddiste che venerano l’Adesso, quel detto che fa “non rimandare a domani quello che puoi fare oggi”, ogni frase poetica sull’argomento che era spesso uscita dalla mia bocca, con fare saccente, ecco, ne avevo fatto un bel mucchio e l’avevo gettato nel water, insieme alla coerenza e alla mia spina dorsale. E tanti saluti anche al fegato.

Lo sapevo da mesi, da mesi aspettavo il momento giusto per dirtelo, io che al momento giusto non ho mai creduto, io che ho sicuramente scartavetrato i suddetti a tanti con la frase ‘siamo gli artefici del nostro destino’. Non sono stata l’artefice di un bel niente, quando si è trattato di te. Sei arrivato come un uragano e hai buttato giù tutte le mie certezze, mi hai costretta a mettere in discussione tutto ciò in cui avevo ciecamente creduto, solo respirandomi accanto. Pure che accanto a me ci sei rimasto ben poco.

Fino a non molto tempo fa mi tormentavo, pensando “tre giorni per amarti e tutta una vita per dimenticarti”. Mi hai nutrita senza saperlo. Devi sapere che un amore impossibile è cibo per uno scrittore. E non un cibo qualunque. È il meglio del meglio. Come caviale, aragosta e champagne. Non so nemmeno se vanno bene insieme, chi mai ha avuto abbastanza soldi in tasca da permettersi una cena simile? So che sono costosi e amarti m’è costato caro, m’è costato tutto e credevo non avrei mai smesso di pagare.

È strana la vita. Prima di te, ho avuto la possibilità d’amare un numero piuttosto elevato di presenze, senza mai riuscire ad avvicinarmi davvero all’amore – pure che questo l’ho realizzato solo dopo. Ho finito per amare un’assenza. La tua. Ho finito per aggrapparmi ad un amore che non era stato, un’idea romantica che mi aveva dato la forza di lottare contro la corrente che ti portava lontano. Non c’era nessuna corrente. C’ero io che nuotavo e tu che stavi a guardare i miei sforzi senza batter ciglio. Ce ne stavamo su una scialuppa che non sarebbe mai approdata, che girava in tondo, perché a remare ero io da sola. A lungo, ti ho biasimato per questo. Per non aver lottato per me. Ma forse non ne hai mai avuto l’intenzione. Forse ho fatto tutto da me. Forse, questa tua strana amica, che sogna di diventar scrittrice, ha finito per raccontarsi una storia, l’ennesima, e le è piaciuta così tanto che ha cercato di farla sua, di renderla vera. Può succedere a uno scrittore, sai? Non riuscire più a scorgere il confine tra finzione e realtà. Sono i rischi del mestiere.

Ho messo da parte il rancore quando ho capito che faceva male solo a me. L’ho messo da parte perché era la rabbia che ancora mi teneva legata a te. Mi sono ricordata di quella notte, la notte in cui ho realizzato di amarti, non quella in cui te l’ho confessato. Perché te l’ho confessato per meschinità ed egoismo, perché ti ho sentito lontano e ho tentato di trattenerti, ecco perché. Che ogni tanto mi chiedo se non fossi stata così codarda all’idea di perderti, se sarei ugualmente riuscita a dirtelo, se lo avrei fatto nel famoso momento giusto. Ma poi scuoto le spalle e realizzo che il momento giusto per noi non sarebbe mai esistito, ecco perché è una bella storia, ecco perché non l’ho gettata nel cesto della roba indossata che non mi andava bene, ma l’ho riposta in un cassetto, pure che mai l’indosserò.

Credo d’averti amato come tutti meritano d’essere amati almeno una volta nella vita. Non ho amato l’idea di averti ma quella di non poterti avere. Ho amato ciò che saremmo potuti essere – ma non siamo stati. E ho amato te, per quello che eri quando t’ho conosciuto, per quello che eri senza di me. Ti ho amato e, quand’è finita, sono diventata te, una versione amplificata di me stessa ma coi tuoi difetti, con la paura di fermarti, con quella spasmodica voglia di libertà che era la tua gabbia, pure che tu non lo sapevi, non lo sai. Ma non sei mai realmente libero fino a che non sei capace d’appartenere e forse è l’aver realizzato questo che m’ha dato la forza di scriverti, di raccontarci. Lo faccio in forma di lettera perché vorrei che te la rigirassi tra le mani e pensassi che si tratta di una lettera d’addio. E sono anche abbastanza egocentrica da sperare che qualcosa ti stringa almeno un po’ la bocca dello stomaco, quando avrai realizzato.

Amor mio, in questa vita siamo ciò che scegliamo. E probabilmente, l’idea di un amore fatto d’attesa ha del romantico e almeno un po’ stuzzica piacevolmente la mia indole poetica, ma vedi, non è ciò che scelgo per me, non è ciò che avrei scelto. E per te ho messo da parte me stessa anche troppe volte e rischia di divenire una malsana abitudine, non credi? T’avrei anche aspettato ma non s’aspetta chi non ti da ogni giorno una ragione per farlo e, a dirla tutta, io la pazienza di Penelope non ce l’ho e quindi scelgo d’essere Ulisse, proprio come te. Non era forse questo, questo esser fatti della stessa pasta, che ci ha fatti avvicinare l’uno all’altra? Nessuno ha mai stabilito che due anime gemelle siano destinate a stare insieme. Forse per chimica ci siamo voluti per un po’, ma resta il fatto che in fisica due poli uguali si respingono e così è accaduto. Ti ho respinto che t’amavo. Assurdo, penseranno gli altri, ma per noi aveva senso, era logico, era giusto, era ciò che andava fatto e che ci ronzava intorno come una fastidiosa zanzara dall’inizio, era finita ancor prima che iniziasse. Un vuoto a perdere eravamo.

Ho sempre temuto l’idea di rimanere intrappolata nella ragnatela delle aspettative che gli altri riponevano in me, senza mai accorgermi d’essere io stessa il ragno che l’aveva tessuta, filo per filo, e che mi divorava viva.
Ma nella corsa a perdifiato, in fuga dalle proprie fobie, c’è sempre un attimo in cui si guarda, d’istinto, alle proprie spalle ed io avevo realizzato che nessun timore, nessuna aspettativa, nessuna fine m’aveva mai inseguita veramente. Scappavo da me stessa e mi sarei raggiunta sempre, poco importava quanto lontana e a che velocità andassi. Scappavo da me stessa come spesso sono scappata dai miei sentimenti e da quelli degli altri, dagli impegni a lungo termine e da qualunque cosa minacciasse la mia libertà fasulla, tutto prima di conoscerti, tutto prima di incontrare qualcuno che corresse nella mia stessa direzione, amandoti senza mai avanzare la pretesa di fermarti, perché sarebbe stato ipocrita e tanto meschino ammettere di amarti e poi volerti diverso. Ho corso al tuo fianco fino a che ho potuto, ma due rotaie non si affiancano per sempre, lo sapevo, avrei dovuto esser preparata all’impatto, quando la tua strada si è incrociata con la mia e mi sei passato attraverso. Non ti sei fermato, hai proseguito in una direzione diversa dalla mia, lontano, ed io ho fatto lo stesso, ho proseguito in una direzione diversa dalla tua, lontana, pure che, se ti venisse mai in mente di tornare indietro, all’incrocio tra la mia vita e la tua, ci troveresti pezzi di me. Dei capelli, ad esempio, o un po’ d’epidermide, e tanti piccoli pezzi di carta, fogli su cui avevo scritto le mie prime poesie, strappati con foga quando quel No ha risuonato allo stupido apparecchio telefonico ed ha generato un eco eterno ed amaro nella mia cassa toracica e nei miei ricordi, trasfigurati da un amore che era troppo, che non conosceva moderazione o prudenza, che sembrava privarmi dell’orgoglio, mio compagno, per donarlo a te, che te lo rigiravi tra le mani con maestria.

Forse volere è potere e non siamo stati perché non m’hai voluta abbastanza o perché nessuno dei due era disposto a metter da parte il proprio egoismo, in definitiva, per seguire l’altro, perché siamo ambiziosi, grandi sognatori, e niente temiamo più dell’idea di metter radici, in luoghi o persone. Oppure le nostre volontà non sono che microscopiche gocce nell’Oceano, che sarà ugualmente il fatal vento a decidere da che parte condurci e che, a nuotar contro corrente, sprechi solo energie, inizi ad annaspare e sei bello che morto, annegato. Due come noi potevano solo distruggersi a vicenda e tu eri destinato ad esser niente più che una cicatrice sulla mia pelle, perché puoi star certo che, prima o poi, diveniamo tutti cicatrici sulla pelle di qualcuno. E quando la mia brucia, lo ammetto, l’irreprensibilità dei miei sentimenti viene meno e subentra l’egoismo e allora vorrei tanto averti ferito anche io, almeno un po’, vorrei aver lasciato una traccia di me su di te; così che un giorno, quando la tua pelle sarà accarezzata da un’altra, lei noterà il segno e tu ricorderai ed io avrò trovato il modo di star con te ugualmente.

Lo so che vivo d’utopia. Tra qualche anno, a mala pena ricorderai il mio nome. Sarò quella ragazza strana ma carina che scriveva bene con la quale hai provato a stare per un po’, quando non c’era tempo. Mi avrai messa via come io ne ho messi via tanti, prima di te: non senza un sospiro ma col cuore ancora integro, nuovo, pronto per riempirsi e poi infrangersi per qualcuna che non sarò io. Con un po’ di fortuna, avrò voltato pagina anche io, invece di continuare ad infilarmi in letti occasionali e poi fuggire dalle carezze sincere per paura che macchino il ricordo di te, che mi portino via i miei sentimenti per te e li sostituiscano con degli altri, sentimenti che gelosamente custodisco e difendo, senza neanche sapere perché. È una fobia stupida. Nessuno, neanche chi avrà accesso al mio cuore, potrà mai sfiorarli. Rimarranno, assopiti ma vivi, come una Bella Addormentata, in me, assumendo la forma di un piccolo nodo in gola che rende più roca la mia voce e che la incrinerà, ogni volta che pronuncerò parole d’amore per un altro. È la sorte di ogni amore impossibile.

Credo fermamente che di passato si possa anche morire, una sorte di overdose di ricordi belli, più belli da quando sono divenuti niente più che ricordi e la memoria ubriaca del cuore li ha avvolti in una soffice nube di porpora, una nebbia che stordisce piacevolmente e ti fa piangere e ti fa ridere. I ricordi, almeno per me, hanno sempre avuto una concretezza maggiore del presente, il presente di cui non siamo mai pienamente soddisfatti. Persino tu, persino noi, quand’eravamo presente non eravamo così belli come adesso che siamo solo passato, ricordi belli, nube di porpora. Probabilmente ti ho amato perché da te potevo avere solo quello: dei ricordi. Attimi fuggevoli, preziosi, che non hanno avuto il tempo di rovinarsi, di ruzzolare, di sporcarsi e divenire preda della monotonia, dell’abitudine, del banale. E ti amerò perché non saprò mai come sarebbe andata se avessimo avuto del tempo per noi, se eri davvero tu o se ti avrei archiviato insieme agli altri e sarei andata avanti a testa alta, se eravamo destinati ad essere un noi ma il destino ci faceva troppa paura. E non ti dirò che ti amerò per sempre perché peccherei di presunzione. Mi hai cambiata e questo è tutto ciò che so. E, di quella che sono, tu sei parte integrante: sei nei miei sorrisi d’imbarazzo e in certe battute sentite che, d’impulso, mi viene voglia di dire a te, perché è ciò che un tempo avrei fatto; sei nelle ciocche di capelli che scendono a sbarrarmi la vista e nella punta più amara del mio sarcasmo; sei in ogni viaggio che faccio, in ogni posto che visito, in troppe canzoni e in qualche romanzo; sei nella pioggia di certi pomeriggi, quando divengo la malinconica ragazza alla finestra e, paradossalmente, sei nei miei discorsi da finta cinica; sei in ogni decisione irrazionale che trovo ancora il coraggio di prendere, fortunatamente.

Addio. Ammetto di non aver mai creduto nell’eternità di un attimo, prima di conoscerti.

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