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La crisi della cultura ai tempi del Coronavirus: “Manca un’industria della cultura”

Il noto critico d'arte Luca Nannipieri riflette sulla crisi che sta investendo il mondo della cultura, a causa dell'emergenza Coronavirus

Il Coronavirus, sulla cultura e sul turismo nel biennio 2020-2021, sta producendo un numero altissimo di disoccupati, precari licenziati, volontariato selvaggio al posto di servizi retribuiti, lavori in nero in cambio di spiccioli.

E, in fondo, ce lo meritiamo. Perché nessun altro settore è così capace di autolesionismo e di accettare passivamente una situazione subalterna come quello che riguarda centinaia di migliaia di professionisti della cultura che accettano inoperosamente, quasi in maniera lamentosamente sottomessa, l’attuale blocco di qualunque loro attività attorno musei, biblioteche, archivi, siti archeologici, centri storici, teatri, editori, festival, enti pubblici, privati e religiosi.

Dai primi di marzo, quando sono iniziati il distanziamento sociale e il reclusorio in casa, fino ad oggi, questi professionisti hanno acconsentito, con un solo monotonale borbottìo diffuso, a una palese situazione che li ha visti obbligati a non lavorare e a non guadagnare, mentre altre attività sono state considerate assolutamente più essenziali, tali da essere tenute aperte. E non stiamo parlando di farmacie, alimentari, supermercati, ospedali, ma, come è inevitabile in un’epoca iperconnessa nella produzione e nello smistamento di materie, sono rimaste operative aziende e imprese che lavorano nell’estrazione di carbone, petrolio e gas, nella realizzazione di imballaggi, tessuti, articoli in gomma, spaghi, corde, funi e reti, motori e trasformatori elettrici, nella riparazione e manutenzione di macchine e apparecchiature, nella raccolta e smaltimento dei rifiuti, nell’ingegneria civile e nell’installazione di impianti idraulici, nella manutenzione e riparazione di trattori, in attività legali e contabili, in veterinaria, trasporti di merci, riparazione elettrodomestici.

Insomma sono stati chiusi a tempo indeterminato teatri, librerie e musei, però se vuoi chiamare il giardiniere a metterti il concime sul prato, quello è un lavoro ritenuto essenziale. Più essenziale che diffondere conoscenza. Sono stati disdetti traumaticamente festival, concerti, conferenze, mostre (con tutto il loro indotto economico perduto), mentre è stato ritenuto fondamentale poter riparare il tostapane e lasciare funzionanti le aziende che producono cemento. Musei, biblioteche e chiese sono stati serrati senza distinzioni, mentre fabbricatori di tostapani e cerette per la depilazione sono rimasti aperti, con buona pace dei Costituenti che misero la cultura e il patrimonio artistico, e non le cerette per la depilazione, tra i fondamenti morali della Repubblica democratica.

Perché è accaduto questo? Perché la cultura non è un’industria, non preme sui Governi con la forza di un’organizzazione strutturata di massa. Fintanto i librai parlano per i librai, gli attori di teatro per il teatro, i direttori di museo per i musei, i bibliotecari per le biblioteche, i restauratori per i restauri, gli albergatori per gli alberghi, segmentando, spezzettando, facendosi ognuno portavoce del proprio piccolo settore di appartenenza, la cultura e il turismo saranno sempre ritenuti più marginali rispetto a chi produce macchine, attrezzi, combustibili, sanitari e alimenti.

Gli atomi non hanno mai avuto peso politico. Solo le masse, le macroaree di interessi hanno potere di pressione muscolare sui Ministri, sul Parlamento e sulle legiferazioni.
Serve un piano industriale per la cultura. Serve che la cultura diventi industria, cioè un sistema complesso di specializzazione e di interessi di massa, organizzata secondo una struttura consolidata, così come Confindustria raggruppa 150mila imprese dell’industria manifatturiera, automobilistica, dei rami bancario e assicurativo, trasporto e logistica, dando impiego a più di 5 milioni di dipendenti. Senza questa necessaria trasformazione, che porterebbe la cultura e il turismo sul piano finalmente economico produttivo e non volontaristico e pubblico-impiegatizio, come in gran parte è adesso, ci troveremo a vivere un avvenire di profonda e ramificata disoccupazione. E ce la meriteremo tutta.

Luca Nannipieri

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