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Com’è fare l’archeologo in Italia, lo racconta Aglaia Piergentili Margani

Tra difficoltà e soddisfazioni, fare l'archeologo in Italia è un mestiere davvero affascinante, faticoso e tutto da scoprire

MILANO – Oggi il lavoro in Italia è un’argomento scottante. I vari campi umanistici paiono non offrire grandi possibilità professionali e sembra impossibile poter campare con la cultura. Nonostante le difficoltà, per fortuna c’è chi ancora sceglie di intraprendere una professione umanistica come, ad esempio, quella dell’archeologo. Abbiamo intervistato Aglaia Piergentili Margani, una giovane archeologa che ci racconta com’è lavorare, tra difficoltà e soddisfazioni, a contatto con l’antico e con il bello dell’Italia.

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Allora Aglaia, tu sei una giovane archeologa in carriera con già un bel bagaglio di esperienza sul campo. Quali difficoltà hai trovato nel tuo percorso lavorativo in qualità di donna?

La maggior parte dei professionisti, nel campo dell’archeologia, sono donne che operano spesso nei cantieri edili, popolati per la stragrande maggioranza da uomini, al fine di salvare (qual’ora venissero in superficie) i reperti storici dall’imminente (altrimenti) distruzione. Ecco, proprio la presenza delle figure femminili in questi ambienti spesse volte non è digerita molto bene. Però penso che queste sono cose che (purtroppo) accadono in qualsiasi ambito lavorativo e, nel mio caso, non sono (per fortuna) situazioni all’ordine del giorno. Ma al di questi episodi, i problemi che in questo lavoro creano differenza tra uomo e donna si stanziano più che altro sul piano pratico: infatti, se lavorare 9 ore al giorno per strada è già molto pesante per un uomo, figuriamoci per una donna. In più se questa ha anche un figlio, conciliare la famiglia col lavoro diventa davvero complesso. Senza contare poi che la retribuzione spesse volte non è consona al tanto lavoro che tutti i giorni, sia dentro che fuori il cantiere, viene svolto. Tuttavia il rapporto con i colleghi del proprio team è davvero prezioso, così come lo sono le conoscenze che si fanno in cantiere, da cui spesso nascono dei bellissimi rapporti.

E invece a livello professionale, quali sono le difficoltà del tuo mestiere?

In genere la difficoltà sta nel conciliare la parte pratica con quella intellettuale. Perché si è vero, il nostro lavoro si svolge sul campo, però è anche vero che bisogna essere sempre vigili e attenti. È di fatto una prestazione intellettuale molto grande che prevede una vasta conoscenza della materia che si maneggia e prevede anche di possedere tantissime nozioni complesse che chi non è del mestiere ha difficoltà a comprendere. Ma questo è un problema della nostra categoria. Nel corso del tempo ci siamo chiusi molto e solo negli ultimi anni stiamo capendo che forse è il caso di spiegare bene quello che è il nostro mestiere a chi non conoscere questo ambiente.

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Tu come archeologa hai lavorato per 5 mesi a Cambridge, in Inghilterra. Com’è stata questa esperienza? Qual’è la differenza, rispetto all’Italia, di lavorare come archeologo all’estero?

Dal punto di vista lavorativo, all’estero ci sono tantissime agevolazioni che qui non abbiamo. Ad esempio: ad un archeologo, la gli viene fornita tutta l’attrezzatura necessaria a svolgere il suo mestiere, dai pantaloni da lavoro a qualunque cosa gli possa servire; senza contare poi che, qual’ora esso sia distante dal sito archeologico dove opera, gli viene addirittura fornita l’auto aziendale; altra cosa non meno importante sono gli orari di lavoro che all’estero vengono rigorosamente rispettati. Ma al di la di queste situazioni, una differenza tra l’estero e l’Italia è che la bellezza del patrimonio artistico che abbiamo qui non c’è l’ha nessun altro.

Esatto, hai detto bene: il patrimonio artistico che abbiamo qui in Italia non lo si trova da nessun’altra parte nel mondo. E proprio tu hai il privilegio di lavorarci a stretto contatto; ti è permesso infatti di interagire con inestimabili pezzi di arte e di storia. Questa cosa ti emoziona?

Il fatto di trovare reperti archeologici che danno segno e traccia del nostro passato è molto emozionante. Quando fai qualcosa per passione e non diventa una routine, lo stupore di fronte a queste bellezze è sempre enorme. Io è da quando avevo 7 anni che sognavo di fare l’archeologa e non ho mai avuto dubbi che questa fosse la mia strada. Ho fatto prima il liceo classico, poi l’Università La Sapienza a Roma (sono romana doc) e in seguito mi sono specializzata a Matera dove ho avuto l’occasione di conoscere persone nuove, approfondire la mia passione e vedere ambiti accademici diversi. Tutto questo è stato molto emozionante ma sopratutto è stato un bel percorso per arrivare a coronare il mio sogno. L’esperienza sul campo rimane tuttavia fondamentale.

Che consiglio dai a chi vuole intraprendere questa strada?

Come dicevo prima, si impara tutto stando molto sul campo. All’università si impara dal punto di vista delle nozioni e del metodo. Ma l’atto pratico, quando si vuole diventare archeologo, si impara solo lavorando. Il mio consiglio è quello di fare il più possibile esperienze lavorative senza abbassarsi ad accettare condizioni di lavoro, sia economiche sia etico-professionali, non proprio consone al mestiere che andiamo a svolgere; di fatto tuteliamo la collettività e il nostro patrimonio artistico, che è un bene comune e prezioso. Lo dico per esperienza personale: io stessa ho iniziato accettando condizioni di questo genere, ma poi, poco dopo, mi sono accorta confrontandomi con i miei colleghi, che era il caso di opporsi a questo sistema che sembra quasi una forma di sfruttamento. Ci terrei quindi a far capire che se uno si organizza, tramite anche l’aiuto “guida” dei colleghi è possibile sopravvivere e districarsi bene tra le varie offerte di lavoro. Non è tutto nero, c’è un minimo di speranza.

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