Il rancore: il veleno micidiale che distrugge l’anima. La cura dei filosofi

14 Novembre 2025

Scopri come liberarsi da uno dei mali più diffusi: il rancore. Filosofi come Nietzsche, Scheler e Arendt svelano la diagnosi e come salvarsi.

Il rancore: il veleno micidiale che distrugge l'anima. La cura dei filosofi

È una delle emozioni più umane e, allo stesso tempo, più distruttive. Inizia con un torto subìto, un’ingiustizia che non si riesce a digerire, e poi, invece di svanire, rimane. Si incista nell’anima, diventa un rumore di fondo che non abbandona più l’individuo. È il rancore.

Nelson Mandela, dopo ventisette anni di carcere, lo sintetizzò con la frase più lucida: “Provare rancore è come bere veleno e sperare che uccida il tuo nemico.”

È la trappola perfetta, un’arma che l’individuo crede di rivolgere contro gli altri, ma che ferisce solo se stesso.

Ma come funziona esattamente questo veleno? Perché ci si attacca così tanto a un dolore che fa così male?

Per capirlo, la filosofia offre una diagnosi spietata e uno strumento più preciso. Non lo chiama semplicemente “rancore”. Lo chiama Ressentiment.

È qui che si trova la vera radice dell’auto-intossicazione, come ha mostrato per primo il filosofo Friedrich Nietzsche.

Il rancore: il veleno dell’impotenza

A “diagnosticare” questo veleno in modo definitivo è stato il filosofo Friedrich Nietzsche.

La sua analisi più spietata si trova in Genealogia della Morale (Zur Genealogie der Moral), pubblicato nel 1887, e in particolare nel paragrafo 10 della Prima Dissertazione. È qui che Nietzsche definisce il Ressentiment come il veleno dell’impotenza.

Appartiene, scrive, a “esseri ai quali è negata la reazione vera e propria, quella dell’azione, e che si sentono risarciti da una vendetta soltanto immaginaria.”

Il meccanismo psicologico è questo.

  1. Si subisce un torto da qualcuno che si percepisce come “più forte”.
  2. Non si può (o non si osa) reagire o rispondere.
  3. Questa rabbia impotente, non potendo sfogarsi all’esterno, si rivolge all’interno. Inizia a “ristagnare”.
  4. Non potendo ottenere una “vendetta reale”, si cerca “risarcimento” (come dice Nietzsche) con una vendetta solo immaginata.

Ma il colpo di genio di Nietzsche è mostrare che questo veleno non è passivo: è creativo.

Mentre la morale “aristocratica” sorge da un trionfante “sì” a se stessa, “la morale degli schiavi fin da principio dice no a un «fuori», a un «altrimenti», a un «non se stessi»: e questo no è la sua azione creatrice.”

Per sopportare la propria impotenza, il rancoroso compie un capolavoro di autoinganno: inverte i valori. L’altro è forte? “La sua forza è cattiva”. L’altro ha successo? “Il suo successo è spregevole”. Io sono debole? “No, la mia debolezza è buona, si chiama umiltà, pazienza, bontà”.

È la dinamica della “volpe e l’uva” elevata a sistema morale: l’uva che non posso raggiungere non è irraggiungibile, è acerba.

L’Auto-Avvelenamento dell’Anima

Se Nietzsche identifica la fonte del veleno (l’impotenza), il filosofo Max Scheler, nel suo saggio Il Risentimento (Über Ressentiment und moralisches Werturteil), pubblicato nel 1912, mette il fenomeno al microscopio.

Scheler lo definisce “un autoavvelenamento dell’anima”.

È un veleno che l’individuo produce da solo. Secondo Scheler, come riferisce in apertura del capitolo 1, Per una fenomenologia e sociologia del risentimento, del suo saggio, questo stato “nasce da un’inibizione sistematica dello sfogo” di emozioni normali come la rabbia o l’impulso di vendetta. È il “trattenere” e il rimuginare – causato da un profondo “senso di impotenza” – che intossica la psiche.

L’effetto finale di questo avvelenamento non è solo il sentirsi male, ma il cominciare a “vedere male”.

Come scrive Scheler, ne “conseguono permanenti disposizioni a determinate specie di illusori scambi di valori”. L’individuo rancoroso non riesce più a vedere il bene, il bello o il successo altrui senza provare astio; non può più godere appieno della vita, perché la sua percezione della realtà è ormai deformata e intossicata.

Il veleno totale: quando la bontà diventa “Raggiro”

La diagnosi del “rancore” non è completa senza osservare il suo stadio terminale, quello che Nietzsche descrive nell’Aforisma 45 , Doppia preistoria di bene e male, di Umano, troppo umano (Menschliches, Allzumenschliches), pubblicato per la prima volta nel 1878.

Qui Nietzsche analizza l’anima degli “oppressi” e mostra come il veleno del Ressentiment non si limiti a far soffrire, ma arrivi a falsificare l’intera realtà.

Il veleno è così potente che distrugge la fiducia e la capacità di riconoscere il bene. L’individuo totalmente intossicato non può più credere a un gesto disinteressato.

Come scrive Nietzsche, nell’anima degli oppressi, anche i gesti positivi vengono decodificati al contrario:

I segni della bontà, la carità, la compassione, vengono accolti con angoscia come malizie, preludii di un risultato pauroso, mezzi di stordimento e di raggiro; insomma, come una cattiveria raffinata.

Questo è il culmine dell’auto-intossicazione. Il veleno ha reso paranoici: la bontà altrui non è più un conforto, ma una minaccia, una “cattiveria raffinata”. Il rancore ha distrutto la possibilità stessa di una relazione umana sana.

Gli antidoti contro questo terribile male interiore

La diagnosi filosofica è spietata. Il rancore, o Ressentiment, è una prigione che l’individuo costruisce da solo, come visto con Nietzsche, un “autoavvelenamento dell’anima” che deforma la percezione, secondo il pensiero di Scheler, e che nel suo stadio finale rende paranoici, incapaci di vedere la bontà persino quando viene offerta.

L’individuo si ritrova incatenato a un passato che non può cambiare e a un colpevole che, forse, non rivedrà mai più.

La domanda, a questo punto, è una sola: esiste un antidoto? Se il veleno è così profondo, è possibile spezzare queste catene?

La stessa filosofia che ha diagnosticato il problema offre anche gli strumenti per la cura. E, sorprendentemente, l’antidoto più potente non è un atto di debolezza, ma un atto di potere assoluto.

Se il veleno è l’auto-intossicazione, la cura deve iniziare dall’interno. I filosofi hanno identificato diversi percorsi, ma il più rivoluzionario ribalta completamente l’idea comune di “perdono”.

Il perdono come atto del potere di un nuovo inizio

La prima medicina è spesso la più difficile da accettare, perché viene fraintesa. Quando si sente la parola “perdono”, si pensa a un atto di debolezza, un modo per giustificare il colpevole o cancellare il torto.

La filosofa Hannah Arendt offre una prospettiva che è l’esatto opposto.

Nel suo saggio Vita Activa. La condizione umana (The Human Condition), pubblicato per la prima volta nel 1958 (in Italia nel 1964), Arendt spiega che il problema del rancore è che incatena l’individuo all’irreversibilità di un’azione passata. Il torto è accaduto e non si può tornare indietro. Il rancoroso è colui che rimane bloccato, definito per sempre da quell’atto.

Senza la possibilità di perdonare, scrive Arendt, l’agire umano sarebbe paralizzato:

Senza essere perdonati, liberati dalle conseguenze di ciò che abbiamo fatto, la nostra capacità di agire sarebbe per così dire confinata a un singolo gesto da cui non potremmo mai riprenderci; rimarremmo per sempre vittime delle sue conseguenze…

Il rancore è questo “confinamento”. È la prigione di un unico atto passato.

L’antidoto nietzschiano, il Ressentiment, è una pura “re-azione”, una “vendetta immaginaria” che non fa altro che continuare la catena. Il perdono, al contrario, è l’unica azione che spezza quella catena.

Il perdono, scrive Arendt, “è l’esatto opposto della vendetta”, la quale “lega ognuno al processo”. Il perdono è l’unica risposta che non è automatica:

Perdonare, in altre parole, è la sola reazione, che non si limita a reagire, ma agisce in maniera nuova e inaspettata. La libertà contenuta nell’insegnamento di Gesù è la libertà dalla vendetta che imprigiona chi fa e chi soffre nell’automatismo implacabile del processo dell’azione, che non ha in sé alcuna tendenza a finire. L’alternativa al perdono, ma non il suo opposto, è la pena, che ha in comune col primo il tentativo di porre un termine a qualcosa che senza interferenza potrebbe proseguire indefinitamente. E’ quindi significativo (un elemento strutturale nella sfera delle faccende umane) che uomini siano incapaci di perdonare ciò che non possono punire e di punire ciò che si è rivelato imperdonabile.

Non si perdona per “scusare” l’altro, ma per liberare se stessi.

È un atto di potere supremo che non si basa sull’amore (che per Arendt è “anti-politico”), ma sul rispetto, ovvero la capacità di vedere la persona (“chi” è) separatamente dall’atto che ha commesso (“ciò” che ha fatto).

È l’atto con cui si dichiara: “Quello che hai fatto non definirà il mio futuro. Rifiuto di rimanere tuo prigioniero”.

La scelta. Trattenere il rancore ed essere prigionieri o perdonare è diventare liberi

La diagnosi filosofica, da Nietzsche a Scheler, è chiara: il Ressentiment è un veleno. È una prigione che l’individuo costruisce da solo, un'”auto-intossicazione” che deforma la realtà fino a renderci incapaci di vedere persino la bontà.

Ma se la diagnosi è cupa, la cura è potente.

L’antidoto più rivoluzionario, quello di Hannah Arendt, ridefinisce la prospettiva. Insegna che il perdono non è un atto di debolezza verso l’altro, ma un atto di potere verso se stessi. È l’unica azione che non re-agisce (come fa il rancore), ma agisce in modo nuovo, spezzando la catena che lega al passato. È l’atto con cui si smette di essere “confinati a un singolo gesto”.

Naturalmente, quella di Arendt non è l’unica via per disinnescare il veleno. La filosofia offre un’intera “cassetta degli attrezzi”:

C’è la via “preventiva” degli Stoici (come Epitteto), che insegna l’igiene mentale di separare il fatto esterno dal nostro giudizio interno, per non far entrare affatto il veleno.

C’è la via “radicale” di Spinoza, che punta alla dissoluzione totale del rancore attraverso la comprensione intellettuale che tutto ciò che accade, accade per necessità.

Ma tutti questi percorsi portano allo stesso punto, lo stesso rivelato da Mandela: l’antidoto non si trova all’esterno. Non dipende dal colpevole, dalle sue scuse o dalla sua punizione.

La chiave della prigione è sempre nelle mani del prigioniero. La scelta, alla fine, è solo di chi sa decidere: continuare a bere il veleno, o scegliere di essere liberi.

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