Il Natale è il momento in cui una società mette in scena la propria idea di infanzia. Le luci, gli alberi addobbati, le vetrine illuminate raccontano chi viene incluso nella festa e chi, invece, ne resta fuori.
Centocinquant’anni fa Fëdor Dostoevskij aveva già messo a fuoco questa frattura. Nel racconto Il bambino sull’albero di Natale presso Gesù, pubblicato nel Diario di uno scrittore nel 1876, sceglie la vigilia di Natale per parlare non della povertà in sé, ma dell’indifferenza che la rende invisibile.
Il suo sguardo non si posa sull’assenza di doni, ma sull’assenza di attenzione. Lo scrittura russo dà voce ai bambini che restano fuori dal cerchio luminoso della festa mentre, dietro le finestre, la magia continua indisturbata.
È una pagina che non chiede commozione, ma responsabilità. Perché l’indifferenza, allora come oggi, non nasce dall’odio, ma dall’abitudine a non vedere.
Il Natale dei bambini poveri e ai margini
Nel racconto di Dostoevskij la povertà non coincide semplicemente con la mancanza di beni. Non è solo fame o freddo. È una condizione più radicale: l’uscita dal campo della visibilità.
Il bambino si sveglia “in una cantina umida e fredda”, con addosso “una specie di camicina”, mentre il suo respiro si trasforma in “bianco vapore”. È un dettaglio apparentemente minimo, ma decisivo. Il corpo del bambino registra il freddo prima ancora della coscienza del pericolo. La povertà, qui, è già iscritta nella carne.
Accanto a lui la madre giace immobile. Il bambino non comprende la morte, ma ne percepisce l’effetto più immediato: “si stupì che lei non facesse il minimo movimento e che fosse diventata fredda come il muro”. Dostoevskij non costruisce una scena patetica. Mostra una constatazione infantile, spoglia, senza mediazioni.
Intorno, non c’è nessuno in grado di intervenire. La padrona di casa è stata arrestata, gli inquilini “si erano dispersi chissà dove per le feste”. Resta un uomo “che ormai da ventiquattro ore giaceva ubriaco, come morto” e una vecchia che geme in un angolo. Nessuno è responsabile, e proprio per questo nessuno lo è davvero.
Il bambino cerca qualcosa da mangiare, ma “di croste di pane non ne aveva scovate”. Torna più volte dalla madre per svegliarla. Poi ha paura del buio, perché “i lumi erano ancora spenti”. La marginalità prende forma come una somma di piccole assenze che diventano definitive.
I bambini esclusi dalle luci della festa
In questo senso la povertà che Fëdor Dostoevskij racconta non è un incidente. È una condizione strutturale. Il bambino non viene cacciato dalla società. Semplicemente non rientra più nel suo campo di attenzione.
Ed è da questa invisibilità originaria che prende avvio tutto il resto del racconto.
Quando il bambino esce dalla cantina, entra in un mondo che non riconosce. La città gli appare enorme, rumorosa, attraversata da luci e da movimenti incessanti. È la vigilia di Natale e tutto sembra correre verso la festa. Cavalli, carrozze, persone che si affrettano. Il gelo è ovunque, ma non è lo stesso gelo della cantina. Qui è amplificato dal contrasto.
Dostoevskij insiste su questo scarto. Il bambino sente dolore alle mani e ai piedi, “i ditini ad un tratto sembravano fare tanto male”, ma ciò che lo colpisce davvero è lo spettacolo che si apre davanti ai suoi occhi. Dietro un grande vetro vede una stanza illuminata, un albero di Natale, bambini “lindi e vestiti a festa” che ridono, giocano, mangiano. Per un attimo sorride anche lui.
Il vetro segna un confine netto. Non è una barriera violenta, ma invalicabile. Dentro c’è il calore, fuori il freddo. Dentro la festa, fuori l’attesa.
Il bambino si sposta, continua a camminare. In un’altra casa vede un’altra stanza, un’altra tavola imbandita. Questa volta entra. Non chiede nulla. È lì, semplicemente. La reazione è immediata. Viene sgridato. Una signora gli mette in mano una moneta e lo spinge fuori. Dostoevskij annota che la moneta gli scivola dalle dita, perché “non è riuscito a piegare le sue dita arrossate per ottenerla”.
È un gesto minimo, ma definitivo. La carità esiste, ma non è pensata per chi non riesce più nemmeno a stringerla.
Poco dopo il bambino ride davanti a una vetrina di automi. Bambole che sembrano vive, che attirano l’attenzione dei passanti. Per un momento la meraviglia attenua la paura. Ma anche qui l’incanto dura poco. Un ragazzaccio lo colpisce, gli strappa il berretto, lo fa cadere. Intorno si alzano grida, poi di nuovo il silenzio.
La sofferenza dei bambini poveri
La scena più emblematica arriva senza enfasi. Una guardia passa accanto al bambino e “voltò il capo dall’altra parte per non vederlo”.
Non è un gesto eccezionale. È il gesto che permette alla festa di continuare.
Il bambino corre ancora, senza sapere dove. Entra in un cortile, si accovaccia dietro un mucchio di legna. Qui il racconto rallenta. Il dolore alle mani e ai piedi scompare. Arriva una sensazione di tepore. “Si sentì così bene”, annota Dostoevskij. È il corpo che cede.
La città resta sullo sfondo, illuminata. La festa non si interrompe.
Accovacciato dietro il mucchio di legna, il bambino si rattrappisce. Il freddo che prima faceva male ora sembra attenuarsi. Le mani e i piedi non dolgono più. Arriva una sensazione inattesa di benessere, “un tale senso di tepore, come se si fosse trovato sopra una stufa”. Il corpo smette di lottare.
Dostoevskij descrive questo momento senza dramma. Il passaggio dalla veglia al sonno, dal sonno alla morte, avviene in modo quasi impercettibile. Il bambino pensa che resterà lì “per un po’”, poi tornerà a guardare gli automi. Sorridendo, si addormenta.
È in questa sospensione che il racconto cambia registro. Il bambino sente la voce della madre che gli canta una canzoncina. Non è più il gelo della cantina, non è più il rumore della strada. È una voce che calma, che accompagna. Subito dopo, un’altra voce lo chiama: “Vieni da me a vedere l’albero di Natale, piccino”.
Dostoevskij non chiarisce se si tratti di un sogno, di una visione o di un’invenzione del narratore. Lo dice apertamente, poco dopo. Ma prima lascia che il lettore attraversi questa scena insieme al bambino.
L’albero di Natale presso Gesù
All’improvviso c’è luce. Non è l’albero delle vetrine, non è quello visto da fuori. È qualcosa di diverso, mai visto prima. Intorno ci sono bambini, ma non bambole. Bambini veri, luminosi, che volano, ridono, lo abbracciano. Il bambino non è più solo. La madre è lì, lo guarda e sorride.
Quando chiede chi siano, la risposta è semplice: è “l’albero di Natale di Gesù”. Un albero che Gesù ha preparato “per i piccoli che non ne hanno uno”.
Dostoevskij insiste su questo punto.
Tutti quei bambini sono come lui. Alcuni sono morti assiderati sulle scale, davanti alle porte degli impiegati di Pietroburgo. Altri sono morti negli orfanotrofi, soffocati dalle balie. Altri ancora nelle carrozze di terza classe, nel fetore e nell’abbandono. Il paradiso che viene mostrato non è astratto. È popolato da vittime precise della negligenza umana.
Gesù è lì con loro. Li accoglie, tende le braccia, li benedice. Benedice anche le loro madri, “madri colpevoli”, che stanno in disparte, piangono e vengono consolate dai figli stessi, che asciugano loro le lacrime.
Non c’è giudizio. C’è misericordia.
Il ritorno alla realtà
Il racconto non si chiude nella visione. Dostoevskij riporta il lettore sulla terra, con una frase secca.
Al mattino i portieri trovano “il cadaverino di un bimbo” morto assiderato dietro il mucchio di legna. Poco dopo viene ritrovata anche la madre. Era morta prima di lui. Si ritrovano insieme “in cielo dal Signore Iddio”.
Solo a questo punto l’autore interviene direttamente. Si chiede perché abbia scritto una storia così poco adatta a un diario “ragionevole”. Ricorda di aver promesso racconti di fatti realmente avvenuti. E aggiunge una frase decisiva: ha l’impressione che tutto ciò “sia potuto accadere davvero”.
La cantina, il mucchio di legna, la morte del bambino non sono invenzione. Forse lo è l’albero di Natale presso Gesù. Ma non per questo il racconto perde verità.
L’indifferenza continua a vivere
Il racconto di Dostoevskij continua a interpellare il presente perché descrive una struttura che attraversa il tempo. A distanza di oltre centocinquant’anni, milioni di bambini vivono ancora in condizioni di povertà e marginalità, esclusi dai luoghi della protezione e della festa. Cambiano le città, cambiano i contesti storici, ma il meccanismo resta riconoscibile.
La società contemporanea si rappresenta come un sistema capace di illuminare ogni cosa. Le tecnologie rendono visibile quasi tutto, le immagini circolano senza sosta, le celebrazioni occupano lo spazio pubblico e simbolico. Eppure, dentro questa esposizione continua, intere infanzie restano fuori dal campo della cura. Non per mancanza di informazioni, ma per una selezione implicita di ciò che merita attenzione.
Dostoevskij aveva già individuato questo paradosso. Una società può essere attraversata dalla luce e, allo stesso tempo, lasciare zone intere nell’ombra. Può celebrare l’infanzia come valore universale e accettare che molti bambini crescano senza accesso alla protezione, alla sicurezza, alla festa.
Le luci del Natale, ieri come oggi, non illuminano tutto.
Definiscono uno spazio. Tracciano un confine. Dentro quel perimetro si riconosce l’appartenenza, fuori resta ciò che non viene assunto come responsabilità collettiva.
Il bambino di Fëdor Dostoevskij appartiene a questa continuità storica. Non come figura letteraria, ma come simbolo di un’esclusione che attraversa le epoche. Finché l’indifferenza continuerà a essere una componente ordinaria dell’organizzazione sociale, la distanza tra chi festeggia e chi resta al freddo continuerà a riprodursi, anche in un mondo che si racconta come pienamente illuminato.
