C’è una massima di Tito Lucrezio Caro che oggi suona quasi come una provocazione. A leggerla di fretta può perfino sembrare egoismo. In realtà è una scelta di lucidità, quella di volersi bene e di non farsi risucchiare dal clima di rabbia che, sempre più spesso, detta il tono del vivere sociale.
A prima vista, il pensiero di Lucrezio sembra quello di un cinico che osserva il male da lontano. Ma dentro quel distacco c’è una regola elementare di sopravvivenza mentale. Per restare umani, bisogna restare in piedi. È una frase per chi vive con l’acqua alla gola, per chi si sveglia già stanco, per chi sente che la rabbia collettiva sta diventando aria quotidiana.
Il poeta romano, nel Proemio del Libro secondo della sua opera De Rerum Natura (La natura delle cose), scriveva così:
Suave, mari magno turbantibus aequora ventis,
e terra magnum alterius spectare laborem.È dolce, quando nel grande mare i venti sconvolgono le acque,
guardare da terra il grande affanno di un altro.
Lucrezio lo chiarisce subito, e lo fa meglio di chiunque altro. Non è dolce perché l’altro soffre. È dolce perché, per una volta, tu non stai affogando. È dolce perché hai i piedi a terra. E oggi, restare a riva non è un privilegio. È una competenza.
Quando l’ansia nasce dall’inseguire ciò che consuma
Il malessere che attraversa la società contemporanea non deriva soltanto dalle crisi esterne. Guerre, instabilità economica e incertezza politica hanno sempre accompagnato la storia umana. Ciò che appare radicalmente mutato è il modo in cui l’individuo si colloca di fronte a questi eventi. Oggi prevale l’idea che stare male sia inevitabile, quasi necessario. L’ansia viene normalizzata, la tensione continua scambiata per attenzione, la rabbia per partecipazione.
Lucrezio individua con straordinaria lucidità questo cortocircuito già nel De Rerum Natura. Descrive uomini che si affannano senza tregua, che competono, che fanno gara d’ingegno e di potere, convinti che la salvezza risieda nell’emergere sopra gli altri. È una dinamica che non produce sicurezza, ma inquietudine. L’affanno non nasce dall’eccezionalità delle circostanze, ma dalla convinzione che valere significhi primeggiare, resistere, non fermarsi mai.
Nel medesimo passaggio del poema, Lucrezio formula una delle diagnosi più nette della condizione umana:
O misere menti degli uomini, o animi ciechi! In che oscura esistenza e fra quali pericoli trascorre questo poco di vita che abbiamo! E come non vedere che nient’altro la natura ci latra, se non che dal corpo stia sempre lontano il dolore e nella mente essa goda d’un senso di gioia, libera da affanno e timore? Così vediamo che il corpo di ben poca cosa ha bisogno: di tutto ciò che lenisce il dolore e in tal modo può offrire anche molti piaceri squisiti.
La cecità denunciata da Lucrezio non è morale, ma esistenziale. Non riguarda il bene e il male, ma l’incapacità di riconoscere l’origine reale del proprio disagio. L’ansia non nasce dal mondo in sé, dalle sue crisi o dalle sue instabilità, ma dall’inseguimento incessante di ciò che promette protezione e restituisce affanno. Status, controllo, visibilità, approvazione sociale vengono caricati di un valore salvifico che non possono sostenere. Più questi traguardi vengono rincorsi, più l’individuo si espone a una condizione di fragilità permanente.
In questo scenario, la rabbia non è un evento isolato, ma un sintomo. Una mente costantemente sovraesposta, sempre in tensione, finisce per reagire in modo aggressivo. La rabbia che dilaga nel tessuto sociale appare così come il risultato di una stanchezza profonda, accumulata nel tempo, più che come una reale forza di opposizione. Non è energia vitale, ma esaurimento che cerca un bersaglio.
È a questo punto che acquista pieno significato l’immagine del mare in tempesta. Quando Lucrezio scrive che è dolce osservare il naufragio dalla riva, non sta legittimando l’indifferenza, ma indicando una soglia di salvezza. Il problema non è l’esistenza delle onde, ma la scelta di vivere costantemente dentro di esse. Senza una posizione stabile, l’individuo non osserva la tempesta, la interiorizza.. E finisce per riprodurlo.
Restare nella realtà senza farsi attraversare dalla sua rabbia
La risposta di Lucrezio non è una fuga dal mondo né una forma di distacco elitario. È un cambio di postura interiore. La realtà continua a essere attraversata da crisi, conflitti e tensioni, ma ciò che fa la differenza è il modo in cui l’individuo vi si espone. Restare a riva, nella celebre metafora del De Rerum Natura, non significa sottrarsi agli eventi, ma non lasciarsi coinvolgere dal flusso di affanno e rabbia che essi producono e amplificano.
La dolcezza della riva e il rischio dell’interiorizzazione
Lucrezio introduce questa idea all’inizio del secondo libro, chiarendo subito che la distanza non nasce dall’indifferenza verso il dolore altrui:
Suave, mari magno turbantibus aequora ventis,
e terra magnum alterius spectare laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse malis careas quia cernere suave est.Dolce, quando nel mare immenso i venti sconvolgono le acque,
contemplare dalla riva l’affanno grande di altri,
non perché l’angoscia d’un uomo dia gioia e sollievo,
ma perché è dolce vedere da che mali tu stesso sei libero.
La dolcezza della riva non nasce dunque dal male altrui, ma dalla possibilità di non esserne travolti. Senza una posizione stabile, l’individuo non osserva la tempesta, la interiorizza. E ciò che viene interiorizzato senza misura diventa ansia, irritazione, rabbia. Restare a riva significa continuare a guardare il mare, ma senza entrarci ogni volta.
La gara permanente come origine dell’ansia
Da quella posizione, Lucrezio invita a osservare il comportamento umano senza giudizio morale, ma con lucidità:
Sed nil dulcius est, bene quam munita tenere
edita doctrina sapientum templa serena,
despicere unde queas alios passimque videre
errare atque viam palantis quaerere vitae,
certare ingenio, contendere nobilitate,
noctes atque dies niti praestante labore
ad summas emergere opes rerumque potiri.Ma nulla è più consolante che occupare sicuri
i forti templi sereni elevati dalla dottrina dei saggi,
donde tu possa abbassare lo sguardo sugli altri
e vederli errare smarriti e alla ventura cercare la via della vita,
far gara d’ingegno, competere di nobiltà,
notte e giorno sforzarsi con assillante fatica
di emergere a somma potenza e impadronirsi dello Stato.
L’ansia nasce qui, non dalla realtà in sé, ma dall’idea che la vita debba essere una gara permanente. Quando questa tensione diventa norma, la rabbia emerge come effetto collaterale inevitabile: non come forza, ma come stanchezza accumulata.
Ciò che la natura umana chiede davvero
A questo punto Lucrezio introduce il principio decisivo che restituisce misura all’esistenza:
Nonne videre nil aliud sibi naturam latrare,
nisi ut qui corpore seiunctus dolor absit,
mente fruatur iucundo sensu cura semota metuque?E come non vedere che nient’altro la natura ci latra,
se non che dal corpo stia sempre lontano il dolore
e nella mente essa goda d’un senso di gioia,
libera da affanno e timore?
La natura non chiede esposizione continua, competizione o tensione permanente. Chiede soltanto l’essenziale. Quando questa misura viene dimenticata, l’individuo si espone a un sovraccarico emotivo che lo rende fragile, reattivo, facilmente rabbioso.
Il poco che basta e la responsabilità di volersi bene
Lucrezio rafforza questa idea chiarendo che al corpo, secondo natura, serve molto meno di quanto si creda:
Ergo corpoream ad naturam pauca videmus
esse opus omnino, quae demant cumque dolorem,
delicias quoque uti multas substernere possint.Così vediamo che il corpo di ben poca cosa ha bisogno,
di tutto ciò che lenisce il dolore
e in tal modo può offrire anche molti piaceri squisiti.
I “templi sereni” evocati dal poeta non sono luoghi di isolamento, ma spazi interiori di contenimento. Sono la capacità di non reagire immediatamente, di non trasformare ogni stimolo in una minaccia, di non confondere la tensione continua con la vitalità. Restare a riva significa restare nella realtà senza lasciarsi attraversare dal flusso di rabbia che essa costantemente sviluppa e propone.
In questo senso, volersi bene non è una scelta sentimentale, ma una forma di responsabilità. È la decisione di non vivere costantemente dentro l’onda, di non trasformare l’affanno in identità. Perché solo chi non è travolto può restare lucido. E solo chi conserva lucidità può davvero abitare il mondo senza esserne consumato.
Volersi bene per non diventare parte della tempesta
Lucrezio non offre una via di fuga, né una promessa di salvezza. Offre una soglia. Indica un punto oltre il quale l’individuo smette di confondere la vita con l’affanno e la partecipazione con l’autodistruzione. La sua lezione non riguarda il mondo che cambia, ma l’uomo che si perde inseguendo ciò che lo consuma.
In una società in cui l’ansia è diventata normale e la rabbia una lingua condivisa, restare a riva è un atto di lucidità. Non significa voltarsi dall’altra parte, ma rifiutare di farsi attraversare dal rumore continuo che trasforma ogni evento in minaccia e ogni crisi in identità. È il gesto di chi sceglie di non vivere costantemente dentro l’onda.
Volersi bene, in questo senso, non è un sentimento privato, ma una responsabilità pubblica. È la capacità di sottrarsi alla gara permanente, di riconoscere il limite, di tornare all’essenziale senza vergogna. Perché solo una mente che non è assediata dall’affanno può restare attenta, presente, umana.
La tempesta continuerà. Il mare non diventerà improvvisamente calmo. Ma la possibilità di non affogare resta sempre aperta. Sta tutta in quella scelta silenziosa che Lucrezio chiama sapienza e che oggi, forse più che mai, coincide con il coraggio di abitare il mondo senza lasciarsi consumare da esso.
