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Raffaele Morelli: “La solitudine non è una prigione, ma un’esperienza”

Lo psichiatra Raffaele Morelli riflette sulla solitudine ai tempi del Coronavirus e ci dà alcuni preziosi consigli su come affrontarla

Costrette a casa e improvvisamente a stretto contatto con partner e figli, tante persone iniziano ad accusare i primi segni di ansia. A questo proposito si è espresso lo psichiatra e filosofo, Raffaele Morelli, con alcuni consigli utili ad affrontare l’angoscia della solitudine.

La solitudine vissuta come prigione

Quello che si sta sperimentando più di tutto, in questi giorni, è un profondo senso di solitudine. Solitudine che viene vissuta come una prigione e non come un’esperienza. «Poiché viviamo in un’epoca in cui non siamo mai da soli, in cui il silenzio ci fa paura e siamo sempre connessi, la solitudine che proviamo in questi giorni ci crea grande disagio», ha precisato Morelli. 

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Vietati abbracci e strette di mano: la solitudine ai tempi del Coronavirus

In preda a una nuova solitudine, dovremo fare i conti con una visione più precaria della vita. Ma è nella precarietà che possiamo riscoprire la qualità dei legami affettivi…

Cercare l’amico sconosciuto che è in noi

I bambini hanno al loro interno una predisposizione a giocare con un amico sconosciuto, come fosse reale, come fosse uno di loro. «Nella nostra mente più profonda è, dunque, presente sin dall’infanzia un amico». Una presenza che, chiudendo gli occhi, possiamo energeticamente immaginare. «Tanti vecchi, ad esempio, soffrono poco la solitudine, proprio come i bambini quando giocano. Questo accade perché i vecchi parlano coi loro morti: con il papà che non c’è più, con il marito o la moglie che non c’è più». Li avvertono come presenze a cui chiedono pareri e consigli. Non si tratta di essere sensitivi, quanto di riconoscere le energie ancestrali che ci abitano, dice Morelli. «Mai come in questo momento, abbiamo bisogno delle nostre radici e le nostre radici appartengono al regno delle immagini».

Un esercizio per sconfiggere l’ansia da Coronavirus

«Chiudi gli occhi e immagina un amico misterioso a cui parlare. È una tecnica antichissima. Nell’antica Grecia lo chiamavano Daimon, mentre per i Cattolici è l’angelo custode – spiega Morelli -. Possiamo, quindi, immaginare una presenza che ci sia vicino in questo momento. Quando siamo soli, invece di pensare alle nostre fragilità, ai nostri errori, alle nostre sconfitte, affidiamoci al buio, alle presenza ancestrali che ci abitano. A quello che in psichiatria chiamiamo il “sé”. In questo momento di solitudine, immaginate di avere una guida al vostro fianco – è il suggerimento di Raffaele Morelli -. Meglio se ha un volto sconosciuto e meglio farlo anche quando non siete in ansia. Non siete soli in casa: ci siete voi e il vostro amico sconosciuto ». 

Via: Riza

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