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Perché il rimedio al consumare troppo è la povertà

Così, in modo profetico, Pasolini scriveva sul Corriere della Sera il 9 dicembre 1973. Per mezzo della televisione, il centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un «uomo che consuma», ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neolaico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane.

Egli percepì la scomparsa di un mondo popolare millenario, sono una forza del passato, che aveva conosciuto ed amato sin dai tempi della sua natia Casarsa, sin dai tempi della sua adolescenza friulana. Una vera e propria adorazione che successivamente ebbe modo di vivere anche a Roma nell’immersione nel mondo delle sue borgate.

E proprio perché amò visceralmente e profondamente quell’arcaico mondo umano poté percepire la minaccia della sua scomparsa in quella che definì omologazione, edonismo di massa, descrivendoci quella che senza mezzi termini appellò come una rivoluzione antropologica e culturale mai avvenuta prima in Italia.

Sempre dallo stesso articolo infatti: Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è tale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la “tolleranza” della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana.

Più che il fascismo, poté il consumismo con il suo sviluppo economico rapido pieno di contraddizioni e l’avvento della televisione ad omologare gli italiani verso questo edonismo di massa.  Questo consumismo che prevede, ancora oggi,  la ricerca di un piacere indotto,  privo di legami con la tradizione e con valori, ma bensì catapultato verso un universo di nuovi valori non sentiti e discussi profondamente perché commerciali ed effimeri.

Gli ideali, la cultura, addirittura la ricerca della felicità in questo sistema di cose si possono manifestare così nell’atto dell’acquisto di merce e si arriva perfino ad esistere non perché uomo ma perché consumatore.

Così questi bisogni indotti, funzionali agli interessi dei detentori del potere economico, rappresentano il vero progresso che non è più invece visto come miglioramento della qualità della vita e dei diritti reali e concreti delle persone.

Il Poeta, come nella raccolta Le ceneri di Gramsci (Garzanti 1957) avvertì questa mutazione antropologica, dapprima descrivendola poeticamente, piange ciò che muta, anche per farsi migliore, ma affrontandola poi sempre più virilmente come nel suo ultimo film Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975).

Con il passare degli anni infatti la sua protesta diverrà maggiormente “corsara” che poetica, anche se questo ultimo suo connotato non si sgretolerà mai.

Concludendo voglio adesso citare alcune frasi, scritte sempre negli anni ’70, con precisione il 30 giugno 1974, da un altro grande scrittore e giornalista italiano: Goffredo Parise, il quale produsse le medesime riflessioni, ha ragione Pasolini quando parla di nuovo fascismo senza storia.

Parise individuò una panacea che oggi potremmo dire incredibilmente precorritrice della filosofia della decrescita felice e la descrisse con parole che ci spiegano perché il rimedio al consumismo è la povertà.

Frasi tratte da un suo pezzo che scrisse per la rubrica che egli tenne sul Corriere della sera. Articolo ricco di riflessioni sul perché la povertà è indicata non solo come una medicina ma anche come un atto consapevole e rivoluzionario contro la società dei consumi.

In questa lettera giornalistica, fra le altre cose, il nostro approccio alla giornata, le nostre scelte quotidiane, più semplici e comuni possono fare la differenza. Cari Amici, prendetevi qualche minuto e leggetela, ne vale la pena…

…Povertà è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere di beni minimi e necessari, quali il cibo necessario e non superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua. Povertà e necessità nazionale sono i mezzi pubblici di locomozione, necessaria è la salute delle proprie gambe per andare a piedi, superflua è l’automobile, le motociclette, le famose e cretinissime “barche”.

Povertà vuol dire, soprattutto, rendersi esattamente conto (anche in senso economico) di ciò che si compra, del rapporto tra la qualità e il prezzo: cioè saper scegliere bene e minuziosamente ciò che si compra perché necessario, conoscere la qualità, la materia di cui sono fatti gli oggetti necessari. Povertà vuol dire rifiutarsi di comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura niente e non deve durare niente in omaggio alla sciocca legge della moda e del ricambio dei consumi per mantenere o aumentare la produzione.

Povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l’olio, il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro paese; imparando a conoscere questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a protestare, a rifiutare. Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita. Moltissime persone non sanno più distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola cultura è l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del linguaggio televisivi. Tutto il nostro paese, che fu agricolo e artigiano (cioè colto), non sa più distinguere nulla, non ha educazione elementare delle cose perché non ha più povertà.

Il nostro paese compra e basta. Si fida in modo idiota di Carosello (vedi Carosello e poi vai a letto, è la nostra preghiera serale) e non dei propri occhi, della propria mente, del proprio palato, delle proprie mani e del proprio denaro. Il nostra paese è un solo grande mercato di nevrotici tutti uguali, poveri e ricchi, che comprano, comprano, senza conoscere nulla, e poi buttano via e poi ricomprano. Il denaro non è più uno strumento economico, necessario a comprare o a vendere cose utili alla vita, uno strumento da usare con parsimonia e avarizia. No, è qualcosa di astratto e di religioso al tempo stesso, un fine, una investitura, come dire: ho denaro, per comprare roba, come sono bravo, come è riuscita la mia vita, questo denaro deve aumentare, deve cascare dal cielo o dalle banche che fino a ieri lo prestavano in un vortice di mutui (un tempo chiamati debiti) che danno l’illusione della ricchezza e invece sono schiavitù. Il nostro paese è pieno di gente tutta contenta di contrarre debiti perché la lira si svaluta e dunque i debiti costeranno meno col passare degli anni.

Il nostro paese è un’enorme bottega di stracci non necessari (perché sono stracci che vanno di moda), costosissimi e obbligatori. Si mettano bene in testa gli obiettori di sinistra e di destra, gli “etichettati” che etichettano, e che mi scrivono in termini linguistici assolutamente identici, che lo stesso vale per le ideologie. Mai si è avuto tanto spreco di questa parola, ridotta per mancanza di azione ideologica non soltanto a pura fonia, a flatus vocis ma, anche quella, a oggetto di consumo superfluo…

Ha ragione Pasolini quando parla di nuovo fascismo senza storia… La povertà è conoscere le cose per necessità. So di cadere in eresia per la massa ovina dei consumatori di tutto dicendo che povertà è anche salute fisica ed espressione di se stessi e libertà e, in una parola, piacere estetico. Comprare un oggetto perché la qualità della sua materia, la sua forma nello spazio, ci emoziona…

La povertà, infine, si cominci a impararlo, è un segno distintivo infinitamente più ricco, oggi, della ricchezza. Ma non mettiamola sul mercato anche quella, come i blue jeans con le pezze sul sedere che costano un sacco di soldi. Teniamola come un bene personale, una proprietà privata, appunto una ricchezza, un capitale: il solo capitale nazionale che ormai, ne sono profondamente convinto, salverà il nostro paese.

 

Carlo Picca

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