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Giornata mondiale degli oceani, il problema è la nostra mentalità usa e getta

In occasione della Giornata Mondiale degli Oceani abbiamo intervistato Giorgia Monti, responsabile Campagna Mare di Greenpeace Italia

L’8 giugno è la Giornata Mondiale degli Oceani, un’occasione a livello internazionale per fare il punto sulla situazione attuale dei nostri mari, sensibilizzare sul tema del rispetto ambientale e indire iniziative volte a pulire spiagge e oceani da sporcizia e inquinamento. Abbiamo chiesto a Giorgia Monti, responsabile Campagna Mare di Greenpeace Italia, di raccontarci in quali condizioni versano i nostri mari e cosa possiamo concretamente fare per migliorarle.

Giorgia Monti
Giorgia Monti, Greenpeace Italia

Qual è la situazione attuale dei mari italiani?

La situazione è preoccupante, stiamo raggiungendo un punto di non ritorno non solo per i mari italiani ma per tutti gli oceani e mari del mondo. Secondo l’ultimo rapporto ONU ci sono 1 milione di specie marine a rischio estinzione, e questo rischio è molto alto anche per il Mar Mediterraneo, che ospita ben l’8% della biodiversità mondiale. Un patrimonio ricchissimo, ma messo costantemente a rischio dall’uomo. Gioca molto anche il fatto che il Mediterraneo sia un mare chiuso, quindi l’inquinamento tende a rimanere all’interno.

Quali sono i pericoli peggiori per mari e oceani?

La minaccia più grave è sicuramente il cambiamento climatico. In secondo luogo la pesca, che mina gravemente la vita delle specie marine, e poi l’inquinamento. Tra i diversi agenti inquinanti sicuramente il primo posto spetta alla plastica, che si concentra spesso nelle famose isole. Il problema è reale, anche perché ha un impatto forte sulla catena alimentare: sia per i grandi cetacei, abbiamo tutti in mente i numerosi spiaggiamenti e morti di capodogli e balene, ma anche per piccole specie meno conosciute. Anche quando la plastica non uccide, inoltre, il problema permane, perché ingerire plastica intacca la salute dell’animale e lo indebolisce, portandolo successivamente alla morte. I dati sono allarmanti, perché sì, gli animali si possono curare e reinserire nei mari, ma è un gatto che si morde la coda: una volta liberato l’animale rientra in un mare pieno di plastica, quanto tempo passerà prima che ne abbia ancora lo stomaco pieno?

Quali misure si possono prendere?

Siamo arrivati a un punto che richiede un’inversione di rotta, che non può essere più un sviluppo di strumenti per recuperare la plastica in mare: dobbiamo evitare che la plastica finisca in mare! Anche perché quando si parla di nanoplastiche e microplastiche come si fa a raccoglierle? Il semplice riciclo non sarà più abbastanza, così come la raccolta sistematica della plastica già presente in mare. L’unica cosa da fare è ridurre.

I primi responsabili dell’inquinamento degli oceani sono le aziende, perché io singolo individuo posso fare la tutte le buone azioni che voglio, ma se continuo ad andare al supermercato e non mi è data l’opzione – per esempio – di fare il refill del mio bagnoschiuma e sono costretta a comprare la confezione in plastica, c’è poco da fare. La prima richiesta va dunque alle aziende, perché trasformino la produzione in un’ottica sempre meno dipendente dalla plastica e da materiali inquinanti, ricorrendo ad imballaggi sostenibili.

E noi come singoli individui cosa possiamo fare?

La maggior parte della plastica che finisce in mare è plastica usa e getta, di cui possiamo tranquillamente farne a meno. Il problema è che la nostra generazione è pervasa da questa mentalità usa e getta: uso un bicchiere e dopo dieci secondi lo butto via, senza sosta, senza riflettere sull’impatto e sul costo della mia azione. Il nostro pianeta ha risorse limitate: occorre fare un cambio di mentalità, e questo deve partire da ciascuno di noi. Anche perché se i consumatori continuano a chiedere alle aziende e ai bar la possibilità, ad esempio, di acquistare prodotti sfusi senza packaging plastico, prima o poi le aziende cercheranno di soddisfare questa esigenza.

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