Chi ha detto che un romanzo breve non possa contenere l’intero universo interiore di un essere umano? “Agostino“, scritto da Alberto Moravia nel 1943, è la dimostrazione di quanto un luogo fisico possa coincidere con un paesaggio dell’anima. In appena cento pagine, lo scrittore romano costruisce una vera e propria topografia del passaggio dall’infanzia all’età adulta: ogni spiaggia, barca, fiumiciattolo o stanza, è una soglia, una ferita, una prova.
“Agostino” di Alberto Moravia: viaggio nei luoghi dell’anima
Adesso vogliamo portarvi in un viaggio diverso: non una rilettura filologica, ma una passeggiata nei luoghi chiave di Agostino, per scoprire come Moravia abbia saputo trasformare il paesaggio marino in un laboratorio di sentimenti, contraddizioni e desideri inespressi.
Il bagno Amerigo Vespucci: l’illusione dell’infanzia dorata
Tutto comincia in uno stabilimento balneare dall’altisonante nome: Amerigo Vespucci. È lì che il giovane Agostino, tredici anni, trascorre le vacanze estive in compagnia esclusiva della madre. Le giornate sono scandite da rituali quasi aristocratici: bagni al mattino presto, pattino, giochi, confidenze. Il bagno è il regno della complicità materna, ma anche della dipendenza. È un luogo ovattato, borghese, protetto. Finché, come spesso accade, qualcosa si rompe.
L’arrivo di un uomo, Renzo, spezza l’equilibrio tra madre e figlio, e con esso l’idillio del bagno. Agostino, da principe viziato, si sente improvvisamente escluso. E lo stabilimento, prima regno incantato, diventa teatro di esclusione e gelosia. È la prima trasformazione dei luoghi: la fine dell’infanzia si riflette nel mutamento del paesaggio.
La spiaggia libera: il primo contatto col mondo “altro”
Fuori dal recinto dello stabilimento c’è la spiaggia libera. Qui regnano i ragazzi del popolo, le voci scomposte, i corpi impudichi. Agostino li osserva, affascinato e intimorito. Qui incontra Berto e gli altri: giovani sfuggenti, a tratti crudeli, che non conoscono la delicatezza della madre, ma la brutalità della vita. È in questo spazio che Agostino sperimenta l’imbarazzo, il desiderio, l’umiliazione. Vuole essere accettato ma non ha gli strumenti per esserlo.
La spiaggia libera è un altrove: anarchico, ruvido, impuro. Non è più il luogo delle confidenze, ma quello della vergogna. Agostino si vergogna del proprio corpo, della propria educazione, perfino della madre. Ed è proprio in questo imbarazzo che si gioca una delle chiavi più profonde del romanzo.
Il Rio: una frontiera simbolica
Tra il bagno Amerigo Vespucci e la spiaggia libera scorre un piccolo fiume, chiamato semplicemente “Rio”. Non è un grande corso d’acqua, ma un ruscello dalla portata modesta. Tuttavia, la sua funzione simbolica è immensa. Il Rio è un confine, una frontiera, una soglia. Attraversarlo significa abbandonare definitivamente l’infanzia, entrare in un territorio oscuro e indefinito.
È lungo il Rio che Agostino comincia a perdere l’innocenza. Qui si compiono i primi veri tradimenti emotivi, le prime violenze verbali, gli scontri con una realtà che non fa sconti. L’acqua non è più l’elemento giocoso del pattino, ma una corrente che trascina verso una nuova consapevolezza.
La barca di Saro: sospensione e turbamento
Un altro luogo chiave è la barca di Saro, il giovane bagnino. Agostino vi sale con la speranza di trovare protezione, forse una guida. Ma la barca è uno spazio sospeso, dove l’adulto non insegna, non consola, ma confonde. Saro è ambiguo, sfuggente, e l’esperienza con lui e il suo amico Homs è al tempo stesso attrazione e disagio.
Qui Moravia tocca uno dei punti più delicati del romanzo: l’oscillazione tra identità, desiderio, orientamento sessuale. Nulla è esplicito, tutto è suggerito. Ma basta il tono, lo sguardo, l’assenza di guida, a trasformare la barca in una zattera dell’inquietudine. Agostino sente di dover crescere, ma non sa in che direzione.
La casa di tolleranza: soglia mancata
Il culmine della trasformazione passa per un fallimento. Agostino, spinto da una smania di “diventare grande”, tenta di entrare in una casa di tolleranza. È un gesto impulsivo, infantile e disperato: vuole dimostrare a se stesso e agli altri di essere ormai un uomo. Ma viene respinto.
Il bordello non appare mai davvero nel romanzo. È evocato, intuito, immaginato. E proprio per questo diventa ancora più potente: è il luogo proibito per eccellenza, quello a cui non si può accedere senza ferirsi. Agostino resta fuori. E quella porta chiusa dice più di mille pagine: il desiderio non è sufficiente per diventare adulti.
Il ritorno: “Non trattarmi più come un bambino”
Il romanzo si chiude dove era iniziato: al bagno. Ma nulla è più come prima. Agostino ha visto troppo, ha sentito troppo, ha sbagliato troppo. L’ultima scena, in cui chiede alla madre di non essere più trattato come un bambino, è struggente. Non è una vittoria, ma una resa: la fine di qualcosa di irripetibile.
Un romanzo, una mappa
Agostino è molto più di un romanzo di formazione. È una mappa di luoghi emotivi. Ogni spazio, ogni luogo attraversato dal protagonista ha un valore simbolico: il bagno come infanzia, il Rio come soglia, la spiaggia come perdita, la barca come smarrimento, la casa chiusa come limite. È attraverso i luoghi che Moravia racconta l’identità, la classe sociale, il desiderio, il tempo che scivola via.
E noi lettori, ancora oggi, possiamo seguire questa mappa. Possiamo tornare su quelle spiagge toscane, vere o immaginarie, e ricordare cosa vuol dire sentirsi a metà: né bambini né adulti, né dentro né fuori, ma sospesi come Agostino, in un’estate che sa di sale, vergogna e iniziazione.