La gelosia non è una fragilità sentimentale né una deviazione emotiva. In La prigioniera, pubblicato postumo nel 1923, Marcel Proust ne offre una definizione che rovescia ogni lettura romantica del sentimento.
La gelosia spesso è un inquieto bisogno di tirannia applicato alle cose dell’amore.
In questa frase è già contenuta l’intera diagnosi. La gelosia non nasce dall’eccesso di amore, ma da un desiderio di dominio. Non mira a proteggere l’altro, ma a minarne la sicurezza, a renderlo vulnerabile, a dimostrare che ogni certezza in cui si culla può essere resa fallace. È un esercizio di potere che si insinua nella relazione fino a trasformarla in sorveglianza.
Da questo momento l’amore smette di essere incontro e diventa controllo. Il mistero dell’altro non è più tollerato, ma vissuto come una minaccia. La mente, allora, non cerca più la felicità condivisa, bensì la prova, l’indizio, il segno che permetta di esercitare la propria tirannia.
Il contesto: La prigioniera e l’episodio di Albertine
La prigioniera è il quinto volume di Alla ricerca del tempo perduto e occupa una posizione cruciale all’interno dell’opera. Qui il romanzo abbandona quasi del tutto la molteplicità dei mondi sociali e si concentra su una situazione unica, claustrofobica. La convivenza forzata tra Marcel e Albertine, trattenuta in casa per essere sottratta a un sospetto continuo di infedeltà.
La trama, ridotta all’essenziale, è tutta interna. Non accadono grandi eventi esteriori. Ciò che si consuma è un logoramento quotidiano fatto di controlli, menzogne, interrogatori impliciti, silenzi, ricatti emotivi. Albertine rimane sempre opaca, vista esclusivamente attraverso lo sguardo di Marcel, che non riesce mai a conoscere i suoi veri pensieri, desideri o azioni. È proprio questa impossibilità di accesso all’altro a generare la spirale della gelosia.
Questo episodio, apparentemente autonomo rispetto al resto della Ricerca, nasce anche da una ferita biografica reale. Tra il 1913 e il 1914 Proust visse una relazione intensa e tormentata con il suo segretario e autista Alfred Agostinelli, segnata da sospetti, possessività e tentativi di controllo. La fuga improvvisa di Agostinelli e la sua morte in un incidente aereo fornirono a Proust il materiale emotivo che catalizzò la scrittura dell’episodio di Albertine. Tuttavia, ridurre La prigioniera a una semplice trasposizione autobiografica sarebbe un errore. Il nucleo psicologico della gelosia era presente nella Ricerca ben prima di quella relazione.
In questo volume, infatti, Proust non racconta una storia privata, ma porta alla massima concentrazione una verità universale sull’amore, ovvero l’incomunicabilità radicale tra gli esseri, l’illusione del possesso e la trasformazione del desiderio in tirannia.
La sete di sapere che non conduce mai alla certezza
Una volta che la gelosia si è installata come forma stabile dell’amore, la mente non cerca più la relazione, ma l’indagine. Marcel Proust lo dice in modo diretto, quasi brutale:
Quante persone, quante strade e città la gelosia ci rende avidi di conoscere! È una sete di sapere grazie alla quale, su punti isolati gli uni dagli altri, finiamo coll’avere tutte le nozioni possibili, tranne quella che vorremmo.
La conoscenza promessa dalla gelosia è sempre insufficiente. Si accumulano dettagli, frammenti, informazioni marginali, ma la certezza resta irraggiungibile. Il sospetto può nascere in qualsiasi momento, anche senza nuovi fatti:
Non si sa mai se non nascerà un sospetto perché, d’un tratto, ci torna in mente una frase che non era chiara, un alibi che non era stato dato senza intenzione.
Ciò che rende questo meccanismo ancora più distruttivo è che non richiede più la presenza dell’altro. La gelosia continua ad agire anche nell’assenza, anche dopo la separazione. Proust parla esplicitamente di una gelosia tardiva, che nasce quando tutto sembra concluso:
C’è una gelosia tardiva che nasce solo dopo averla lasciata, una gelosia del “giorno dopo”.
Il sentimento non ha fine perché non dipende più dalle azioni dell’essere amato. Anche se nulla accade, anche se l’altro non può più agire, la gelosia trova nuovo alimento nei ricordi:
Se anche l’essere amato non potesse più suscitarla con le sue azioni, se fosse per esempio morto, succede che certi ricordi, posteriormente a ogni avvenimento, agiscano d’un tratto nella nostra memoria come altrettanti avvenimenti.
Basta fermarsi a riflettere perché ciò che sembrava insignificante cambi natura:
Ricordi sui quali basta soffermarci un istante a riflettere, senza che sia intervenuto alcun fatto esterno, perché assumano un senso nuovo e terribile.
Per questo la gelosia non ha bisogno di dialogo né di confronto. Proust lo afferma con una frase decisiva:
Non occorre essere in due, basta esser soli nella propria stanza a pensare perché spuntino nuovi tradimenti messi in atto dalla nostra amante, fosse anche morta.
In amore, dunque, non si teme soltanto ciò che accadrà. Si teme anche ciò che è già accaduto, o che si crede di aver compreso solo troppo tardi:
Così in amore non dobbiamo temere, come nella vita quotidiana, soltanto l’avvenire ma anche il passato.
La gelosia non cerca la verità. Cerca un movimento incessante della mente, un lavoro continuo dell’immaginazione che non può mai arrestarsi.
Il dossier, la menzogna e la fuga simmetrica
Quando la gelosia non si accontenta più di sospettare, ha bisogno di agire. Per trasformarsi in scena, deve dotarsi di prove. Proust lo dice in modo esplicito, senza attenuazioni:
Ma per dar luogo a una scena di gelosia è necessario un dossier con una maggiore e più concreta documentazione.
L’amore viene così trasformato in un procedimento istruttorio. Ogni dettaglio diventa indizio, ogni gesto un possibile capo d’accusa. Ma l’effetto di questa indagine non è la verità. È l’esatto contrario. La gelosia non smaschera la menzogna: la genera.
Proust lo afferma con una chiarezza che non lascia scampo:
Se la gelosia ci aiuta a scoprire una certa tendenza a mentire nella donna che amiamo, essa centuplica questa tendenza quando la donna scopre che siamo gelosi.
La menzogna non nasce dunque dall’infedeltà, ma dalla paura. La donna mente «per pietà o paura», oppure reagisce sottraendosi:
Si sottrae istintivamente, con una fuga simmetrica, alle nostre investigazioni.
Più il geloso indaga, più l’altro si chiude. La sorveglianza produce opacità. È un meccanismo che si autoalimenta e che finisce per distruggere proprio ciò che pretende di proteggere.
Marcel Proust osserva che molti amori attraversano due fasi nettamente distinte. All’inizio la donna parla quasi liberamente della propria vita passata, «soltanto un poco attenuandola». In seguito, quando ha compreso di essere spiata, negherà tutto «con la massima energia» allo stesso uomo che la controlla.
Il geloso arriva persino a rimpiangere quelle prime confidenze. Almeno allora esisteva una forma di fiducia, una comunicazione. Ora resta solo l’inseguimento sterile di una verità che sfugge ogni giorno di più. La gelosia non chiarisce, non pacifica, non rassicura. Trasforma l’amore in un sistema di difese reciproche.
Quando l’altro non è più una persona ma un enigma
La gelosia, portata alle sue conseguenze ultime, non distrugge solo la fiducia. Distrugge la forma stessa dell’altro. A un certo punto, l’essere amato smette di apparire come una persona e diventa qualcosa di irricomponibile. Proust lo formula con una delle frasi più nette dell’intero libro:
Era entrata per me in quella fase deplorevole in cui un essere, disseminato nello spazio e nel tempo, non è più per noi una donna ma un susseguirsi di avvenimenti sui quali non riusciamo a far luce.
L’altro non ha più un volto unitario. È frammentato in episodi, sospetti, ricordi, ipotesi. Non c’è più relazione, ma una serie di problemi insoluti. E contro questa dispersione il geloso continua a combattere, pur sapendo che la lotta è senza esito.
Proust ricorre allora a un’immagine storica crudele per descrivere l’inutilità di questo sforzo:
Un mare che, come Serse, tentiamo grottescamente di colpire, per punirlo di ciò che ha inghiottito.
La gelosia diventa un gesto di violenza contro qualcosa che non può essere dominato. Non colpisce l’altro, ma il vuoto che l’altro rappresenta. È a questo punto che la sconfitta diventa certa:
Una volta che questo periodo ha avuto inizio si è inevitabilmente sconfitti.
Non si tratta di una resa improvvisa. È un lento adattamento alla sofferenza. Alcuni gelosi arrivano a tollerare ciò che prima sembrava intollerabile. Altri, scrive Proust, finiscono per lasciare andare l’altro:
Avendo capito che i desideri di lei, il suo mondo così vasto e misterioso e il tempo sono più forti di loro, la lasciano uscire sola, poi la lasciano viaggiare, in seguito se ne separano.
La gelosia non termina perché ha trovato risposta, ma perché si è consumata. Ha chiesto sempre di più, fino a esaurire ogni alimento:
La gelosia, così, finisce per mancanza di alimento ed è durata tanto perché non si è fatto altro che esigerne sempre di più.
Il suo esito finale non è la pace, ma una forma di disperazione più profonda. Anche se riuscisse a ottenere la fedeltà, resterebbe un vuoto insanabile:
La disperazione di non aver ottenuto la fedeltà se non con la forza, la disperazione di non essere amati.
La sconfitta inevitabile. Il mare che non si può colpire
A questo punto la gelosia ha già vinto, ma non nel modo che il geloso immaginava. L’altro non è più una persona unitaria, ma qualcosa di frammentato e inafferrabile. Proust lo dice con una formula definitiva: l’essere amato entra in «quella fase deplorevole in cui un essere, disseminato nello spazio e nel tempo, non è più per noi una donna ma un susseguirsi di avvenimenti sui quali non riusciamo a far luce».
La gelosia non ha più un oggetto umano contro cui combattere. E tentare di dominarlo diventa un gesto grottesco e inutile. Proust ricorre a un’immagine storica potentissima, parlando di “un mare che, come Serse, tentiamo grottescamente di colpire, per punirlo di ciò che ha inghiottito”.
Da questo momento, scrive Proust, “una volta che questo periodo ha avuto inizio si è inevitabilmente sconfitti”. Non perché l’altro abbia vinto, ma perché il tempo, i desideri e il mondo interiore dell’altro non possono essere contenuti da alcuna sorveglianza.
La gelosia non si risolve attraverso il chiarimento. Si consuma. “La gelosia, così, finisce per mancanza di alimento”, perché ha preteso sempre di più, fino a svuotare tutto.
Marcel Proust arriva così alla sua verità più amara. Anche quando la gelosia ottiene ciò che cercava, resta solo “la disperazione di non aver ottenuto la fedeltà se non con la forza, la disperazione di non essere amati”.
