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Wanderlust – racconto di Elena Fiorentini

La chiamano “wanderlust”, la sindrome di chi non può stare senza viaggiare. Un nome, perché ad oggi ogni cosa deve avere un’etichetta, una categoria, un espediente per rendere comune l’eccezionale e forse sottrarre un poco di quell’intimità che chi viaggia prova quando programma il prossimo atterraggio.
Abigail aveva letto quella parola per la prima volta quando era poco più che bambina e ricordava molto bene l’episodio.
“Mamma cosa significa wan.. wandre.. wander..lust?” era seduta fuori dallo studio dentistico e aveva appena scorto le poche sillabe all’interno di un articolo su una rivista.
“Credo di aver letto questa parola alcune volte su internet. Se non sbaglio è la malattia del viaggiatore” rispose sua madre distrattamente.
“Ohh..” non aveva capito assolutamente cosa volesse dire – nella sua testa, infatti, si susseguivano immagini di passeggeri doloranti con il raffreddore o la febbre alta – tuttavia questa parola le rimase impressa lucidamente in testa, e per un buon motivo, avrebbe detto il fato, dato che non appena ne ebbe l’occasione prese il primo aereo in solitudine.
Ricordava bene anche quell’evento: era una mattina fresca e soleggiata, all’inizio di un’estate che preannunciava di essere torrida. I suoi genitori stavano per accompagnarla all’aeroporto dove avrebbe volato fino ad una città della bella e sconosciuta Spagna.
“Abigail, tesoro, hai già programmato cosa farai non appena arrivata dalla tua amica?” esordì sua madre in auto. “Ehm.. no, nessun programma al momento, ma lo faremo” la giovane fu come risvegliata da un nebuloso torpore. “Hai progettato di andare all’estero dove non conosci alcun luogo senza programmare niente? Fortuna avrai compagnia una volta giunta là, altrimenti ti saresti persa all’aeroporto” la schernì il padre, e forse aveva ragione, ma Abigail non riusciva a guardare oltre il semplice gesto di poter, per la prima volta, volare via.
Più tardi, mentre l’aereo stava per alzarsi verso il cielo, capì. La piccola vacanza iniziata in solitaria non era altro che l’inizio, l’inizio del suo wanderlust.
Da quel momento ogni giorno che viveva, ogni anno che passava, incrementava il suo irrefrenabile desiderio di esplorare il mondo, di conoscere posti nuovi, culture, cibi. E quando ne aveva occasione lo assecondava: vide città, montagne e località di mare; luoghi affollati e moderni accostati alle memorie della storia e di chi, prima di lei, aveva poggiato i piedi su quelle strade.
Ciò che Abigal diceva di amare di più del viaggio era la possibilità di osservare. Osservare ogni cosa, ogni persona, la natura e le città, diceva di poter cercare nuove prospettive e stimoli diversi da quelli sempre avuti, nuovi orizzonti, possibilità e realtà parallele palpabili quanto la sua, ma sconosciute semplicemente perché mai viste.
Ciò che Abigail non diceva era ciò che amava in cuor suo del viaggio, le sensazioni che alloggiavano rannicchiate all’ombra delle sue parole.
Fuggire.
La sua vita, come quella di chiunque altro, era costellata da momenti diversi, più o meno positivi, apprezzabili, difficili o stressanti. Quando pensava alla vita immaginava sempre una curva fatta di alti e bassi, picchi e valli. Quando la sua personale curva si avvicinava ad una valle, un minimo, lei prenotava un aereo. Pochi giorni in un altro posto erano come una medicina alle sensazioni di insoddisfazione, di malessere e tristezza. Fuggiva per poter credere che l’eccezionalità, che da adolescente invidiava alle eroine dei romanzi fantasy, potesse essere ritrovata nell’ordinaria eccezione alla routine, fuggiva perché pensava che le ventate di novità potessero fungere come strumento per allontanarsi il più rapidamente possibile dal minimo del proprio grafico della vita. Così, ogni volta che rincasava, provava la stessa sensazione che nella sua immaginazione sentiva un’automobile dopo un pieno.
Ma Abigail crebbe e divenne una donna adulta, insieme ai doveri e le responsabilità vennero anche le consapevolezze: si rese così conto che le piccole fughe degli anni trascorsi l’avevano riempita, ma anche illusa. Perché fuggire ha senso fino a che si è consci di quale sia il nostro piccolo nemico e di quali strumenti servano per poterlo affrontare una volta rientrati, ma la situazione venne ribaltata quando Abigail colse la più piccola sfumatura di wandrelust, quella piccola ombra che la spaventava e che non riusciva a campire. Nella testa di Abigail risuonava in modo prima inconsistente, poi sempre più martellante una domanda: dove fuggi, quando ciò da cui fuggi sei te stesso?
Quello che le serviva in quel momento era una risposta, che temeva non avrebbe ottenuto con un altro viaggio. Per questa volta, invece di volare avrebbe dovuto navigare, e fare rotta verso gli angoli più ignoti del mare che aveva dentro. L’azzurro che aveva sempre accantonato dicendo a chiunque “a me non piace il mare”.
Perché Abigail sapeva: se ciò che cercava non lo aveva trovato in quello che aveva vissuto, non esisteva altra soluzione se non intraprendere una rotta che non aveva mai intrapreso prima.

Elena Fiorentini

 

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