Sei qui: Home » Racconti » Il vento Gregorio – di Maurizio Minnucci

Il vento Gregorio – di Maurizio Minnucci

Stranamente, ieri sera, qualcosa mi ha portato a Civita, l’antica rocca del mio paese.

Non che ci volessi andare; non che avessi deciso di far visita a quel posto magico che ti riempie il cuore e non ti spieghi perché; non che avessi nostalgia della sua luce calda, o degli staffieri immoti frondati di autunno, compagni delle tue riflessioni e complici silenti dei tuoi pensieri; non che la pietra millenaria avesse lanciato il suo muto urlo irresistibile… no, niente di tutto questo.

Semplicemente, qualcosa mi aveva tratto dalle mie faccende e mi aveva ordinato di muovermi verso la Rocca. E solo al cospetto dell’antica Vedetta del pianoro, avevo realizzato che da ipnotico imperio ero stato ratto.

Era buio, il posto deserto. La Cattedrale vegliava austera il piazzale.
La luce dei lampioni carezzava le fronde dei tigli e colorava l’aria con tutte le tinte dell’arancio, con tutti i colori dell’autunno, con l’atmosfera pungente nunzia del freddo che incombe.

Il tappeto di foglie era lì, posato di fresco, pareva non ci avesse ancora camminato anima viva. E io imboccai il viale strascicando i piedi, per godere di quel suono indicibile che solo le foglie di Civita sanno fare.

Mi piacque pensare, lì per lì, che era stato steso per me, solo per me.

‘Ed è proprio così!’ qualcuno rispose. Io scambiai quella voce per la suggestione di quel posto.

‘Non è suggestione – la voce parlò ancora – sono io, sono qui, con te. Grazie di essere venuto.’

Sapevo che non c’era nessun altro, sapevo d’esser solo. Ma quella voce non era semplice suggestione…

La meraviglia durò solo un istante. Poi, stranamente, svanì. Pensavo di aver compreso cosa stesse succedendo, di chi fosse la voce, chi mi avesse chiamato lì. E mi garbava così tanto l’immagine che mi ero fatta, che non ragionai oltre e mi abbandonai a quel compagno inaspettato e impossibile.

La scarana rintoccò le undici.

‘Sono io, sono il tuo paese…’
‘Lo so, l’ho capito.’
‘Non è divertente stare abbarbicato per millenni sul cucuzzolo di questa erta collina, sempre fermo, impietrito, senza neanche poter sbadigliare, o stiracchiarsi un po’. Aggrappato per non scivolare giù e immobile per non far ruzzolare qualche casetta pel crinale.’
‘E così ogni tanto chiami uno dei tuoi figli, lo fai venire quassù, gli apparecchi la più emozionante delle atmosfere e …’
‘E sto un po’ in sua compagnia. Ogni tanto ne ho bisogno.’
‘Sei un ospite perfetto, un gentiluomo d’altri tempi… ma dimmi, hai tanti amici?’
‘Non tanti quanti sono i miei figli.’

La brezza arpeggiava lieve le ultime foglie sui rami.

‘Raccontami di te’, gli chiesi.
E lui cominciò, affabulatore consumato, a novellare scorci di vita quotidiana dei suoi figli. Piccoli fatti e accadimenti quotidiani perlopiù, antichi come la pietra e nuovi come il bimbo che stava nascendo in quel mentre, il figlio di Mariotto e Carmelina. Narrava qualcosa che sapeva di poco, raccontava piccole storie di uomini semplici e di vita spicciola. Con il fare di chi vuole volare basso, rilassato, lasciava fluire le parole senza affaticarsi troppo nel cercare quelle giuste, o nel seguire un canovaccio. Si stava rilassando con un nuovo amico.

Me ne ha raccontate di cose, mirabili per la loro semplicità, ma quella che più mi ha colpito è la storia del suo amico più antico, del suo compagno da sempre: il Vento Gregorio.

‘Il vento Gregorio – cominciò – è il mio amico più vecchio e più caro, praticamente mi ha visto nascere.’
‘In che senso?’
‘Capitò su queste terre mille e mill’anni fa, quando i sacerdoti e i mastri stavano cercando di disegnare un nuovo villaggio. Eolo lo aveva esiliato dal suo otre e lui vagava come un’anima persa alla ricerca di un nuovo amico.’
‘Scommetto che quel villaggio…’
‘Sì, il villaggio ero io, e il Vento Gregorio non solo mi ha visto nascere ma in qualche modo è pure mio padre.’
‘Tuo padre? In che modo? Come può un vento essere padre di una città?’
‘Il Vento Gregorio lo è davvero. Gli piacque così tanto questa terra che decise di aiutare i sacerdoti.’
‘E come?…’

‘Successe poco prima dell’estate. Era un po’ che i sacerdoti e gli àuguri scrutavano gli astri per trovare un’ispirazione divina e disegnare il villaggio secondo il volere di un dio. Ma i responsi erano discordi e così decisero che sarebbe stato il cielo del primo giorno dell’estate, caro a tutti gli dei, a disegnare il villaggio.’

Il bronzo secolare del campanile annunciò la mezzanotte.

La voce continuò. ‘Il Vento Gregorio aveva deciso che il suo nuovo amico sarei stato io. Così era rimasto ad aleggiare su queste terre e quando sentì del solstizio pensò di fare la sua parte. Fu così che quella notte radunò tutte le nubi nei cieli intorno e le addensò proprio qui, sulle teste dei sacerdoti. Lasciò solo uno spiraglio, piccolo piccolo, che puntava dritto un gruppetto di stelle. Tutti intesero quel fenomeno come chiara manifestazione divina e di prima mattina tracciarono il perimetro del piccolo villaggio come quelle stelle in cielo. Stavano mettendo al mondo una nuova creatura: me.’

‘La costellazione dei Gemelli…’

‘Il Vento Gregorio si considerò subito tra i miei padri, e con premura e dedizione volle crescermi. Per secoli scelse con cura e raccolse nelle montagne d’intorno i pollini dei fiori più profumati e i semi degli alberi più forti, li portò sulle mie terre e accompagnò le nuvole più grandi per irrorarli. Così, io fui a mia volta padre, padre di una natura rigogliosa, di torrenti limpidi, di armenti grassi e liberi, di messi copiose, di uomini lieti, di una vita serena.’

‘Quindi, quello che di tanto in tanto sentiamo fischiare, è il Vento Gregorio, uno dei tuoi padri e, in fondo, anche un po’ padre di noi che siamo figli tuoi.’

‘Non è un fischio. È la sua voce, sono le sue parole, è la sua musica. Solo lui sa suonare i comignoli in quel modo, solo lui sa trarre melodie dalle grondaie rotte, o dai rami secchi degli olmi, o dai miei vicoli stretti e tortuosi. Come tutti i padri, mi tratta come fossi ancora un bambino, e così mi suona cantilene suadenti, mi racconta dei suoi viaggi, dei posti e delle genti che incontra, delle sue amiche nuvole, delle montagne che accarezza, delle pianure che spazza, del mare frizzante…’

‘Quando tornerà?’

‘Sta arrivando. Ha per me sempre un regalo diverso. I profumi delicati di bucaneve, iris, salvia, acacia… o l’aria frizzantina delle montagne innevate, o una manciata di pollini e semi per un prato che fiorirà a primavera. Ma soprattutto ogni volta ha per me mille storie di fantastiche avventure.’

‘Mi viene da pensare che siete accomunati da un destino tanto diverso quanto simile: tu condannato all’immobilità eterna, lui all’inquietudine senza fine.’

‘È così. Ma non è una condanna, è il nostro destino. E anche il peggiore dei destini può essere dolce se hai qualcuno con il quale condividerlo.’

Mi infilai nel letto tardi quella notte e mi svegliai di buon’ora, prima che nascesse il giorno.
Avevo sognato? Forse sì… anzi… no.
Era lì, era arrivato. Il Vento Gregorio fischiava sui tetti e stava raccontando a suo figlio le storie più fantastiche e incredibili che si possano immaginare.

Maurizio Minnucci

© Riproduzione Riservata