Sei qui: Home » Racconti » Velvet Death – racconto di Lisa D’Avino

Velvet Death – racconto di Lisa D’Avino

Sai cos’è lo spirito della morte?

Io, malauguratamente, so di cosa parlo e con tutta sincerità, mi si gela ancora il sangue nelle vene ripensandoci.

Era agosto e ormai il sole era sceso oltre l’orizzonte da parecchio, mamma aveva lasciato il balcone aperto, in un disperato tentativo di combattere l’afa. Il condizionatore aveva scelto il momento sbagliato per smettere di funzionare. Faceva un caldo insopportabile di giorno ed al crepuscolo la temperatura scendeva di poco, persino le zanzare sembravano affaticate. Quella notte non riuscivo a dormire, continuavo a girarmi nel letto, passando dalla parte calda a quella più fresca in continuazione. Per me, era davvero una situazione estenuante, odiavo il caldo con tutta me stessa e preferivo il fresco vento autunnale. Quando una zanzara ronzò pigramente vicino al mio orecchio, decisi che era meglio alzarsi dal bollente giaciglio per cercare dell’acqua in cucina. Poggiai i piedi sul pavimento caldo ed a passi pesanti uscii dalla cappa calda della mia camera. Il mio cellulare segnava le quattro del mattino e 23 messaggi che reclamavano la mia attenzione. Ultimamente non avevo molta voglia, spesso mi trovavo a rimuginare nella mia stessa tristezza senza un motivo ben preciso, avevo l’impressione che qualcuno stesse mangiando la mia voglia di vivere.

Poggiai le spalle al muro mentre sbloccavo il marchingegno tecnologico che stringevo tra le mani, per rispondere a qualche messaggio. L’aria cominciò a farsi sempre più rarefatta e fredda, non capivo cosa stesse succedendo, pensai si trattasse di un’allucinazione per colpa del caldo, dimenticai persino di bere. Tornai indietro, con un cipiglio confuso disegnato sul volto. Nel tragitto fino alla mia camera, passai davanti la stanza dei miei genitori, papà non era ancora tornato da lavoro e il posto vicino a mamma era ancora vuoto. Feci un altro passo prima di irrigidirmi sul posto, le gambe e le braccia nude vennero vestite da uno strato di pelle d’oca. Passai più volte le mani sulle braccia, nella speranza di riscaldarle, non riuscivo a muovermi, sembravo inchiodata a terra mentre il freddo che usciva dalla camera di mia madre si propagava per tutta la casa. Spalancai gli occhi quando vidi che il balcone era chiuso ed ai piedi del letto c’era un uomo vestito di nero che osservava mia madre dormire. Gli occhi mi pizzicavano per le lacrime, volevo urlare, fare qualcosa, ma riuscivo solo a stare ferma, lasciando che gli aliti freddi salissero lungo le mie gambe fino a gonfiarmi le maglia che usavo come pigiama. Mi chiedevo perché la mamma non si svegliasse, perché non sentisse freddo come lo sentivo io. Vedevo spirali di aria congelata alzarsi dall’uomo avvolto nella sua aura di mistero, salivano lungo il tessuto della camicia da notte di mia madre, fino a perdersi nei sui capelli neri. Non avevo mai provato tanta paura in vita mia, con i peli rizzati sulla nuca e gli occhi spalancati mi sentivo una codarda ad osservare tutto senza alzare un dito.

Non percepivo più le dita, avevo freddo ma continuavo a rimanere ferma e insofferente. Il cellulare piano scivolava dalle mie mani intorpidite, fino a cadere a terra. Forse urlai, non ne ero sicura, mi sentivo strana. Non ricordavo proprio bene, ma gli occhi di quell’uomo non li scorderò mai. Si voltò di scatto, probabilmente avevo attirato la sua attenzione urlando. Era più alto di me e questo gli facilitò il movimento con cui mi spinse contro il muro. Aveva negli occhi il fuoco, ardeva nel modo più lugubre possibile, lasciandomi senza fiato. Sembravano le porte per il mio inferno personale, percepivo le urla, i lamenti dentro di essi, ma non poteva essere possibile. Mi guardava duramente, con gli occhi che facevano risaltare gli zigomi alti e la carnagione cadaverica, aveva un accenno di barba a ricoprirgli le guance e folte ciocche di capelli d’ebano gli ricadevano sulla fronte. Cercavo di farmi quanto più piccola possibile vicino al muro, sotto quello sguardo magnetico e duro sentivo il freddo entrarmi nelle ossa, fino a salire lungo la spina dorsale. Nella mia visuale entrarono le sue cadaveriche dita affusolate, prese il mio mento e lo alzò, facendomi incontrare i suoi spaventosi occhi. Erano nascosti dietro le ciocche di capelli, tuttavia il fuoco che li animava faceva sì che spiccassero. Cercavo di tirarmi indietro, volevo sottrarmi a quel gelido contatto che mi entrava nelle vene, fino al cuore, ma lui non era d’accordo. Mi costringeva a guardarlo negli occhi, in quei due pozzi di dolore e sofferenza, sembravano risucchiarmi al loro interno. Mi aggrappai al suo braccio mentre lui avvicinava il suo volto a me, fu allora che la vidi, percepii tutta la sofferenza che nascondeva dentro. Cercai di farmi più indietro, ansimando per il suo dolore, lui si avvicinò ancora facendo quasi toccare il suo petto con il mio.

Non sentivo più le gambe, visto da quella prospettiva, per quanto ne sapevo potevano anche essere state sbranate dai peggiori cerberi dell’inferno, lasciando moncherini senza vita. Ero totalmente concentrata sul ragazzo che avevo davanti, sentivo le braccia diventare sempre più fredde e le labbra diventare catatoniche. Passò il pollice sulla mia bocca, schiudendola leggermente mentre una lacrima solitaria scendeva sulla mia guancia fredda. Il ragazzo fece guizzare l’indice verso la lacrima, catturandola sul polpastrello latteo. La osservò come se fosse qualcosa che non aveva mai visto, sembrava incuriosito. Portò il polpastrello bagnato dalla mia lacrima alla bocca, chiudendo gli occhi per assaporarla, donandomi di conseguenza una tregua dai suoi occhi. Spalancò gli occhi seguito da un mio singhiozzo, prese il mio viso tra le mani osservandolo come se cercasse qualcosa. Sembrava preoccupato, il dolore dai suoi occhi sembrava essere scomparso per il momento. Arrivò una secondo lacrima e lui cominciò a scuotere la testa sempre più preoccupato. Non riuscivo a parlare, quindi non potevo chiamare aiuto in nessun modo. Sentii dei rumori lontani, non avevano importanza ora come ora, avevo l’impressione che il mio mondo si fosse ridotto a lui che baciava ogni mia lacrima.

La scena passò velocemente dall’oscurità della notte ad una luce abbagliante. Mio padre lì, con una torcia puntata su di noi. Lo spettacolo doveva avergli fatto accapponare la pelle, trovare tua figlia in stato catatonico, inerme tra le braccia di uno sconosciuto non era esattamente ciò che si aspettava di trovare una volta tornato a casa. Il ragazzo che mi reggeva era sparito nel nulla, come se non fosse altro che un ombra sovrana dell’oscurità. Avendo perso il mio sostegno, le gambe deboli non riuscirono a reggermi e crollai sotto gli occhi preoccupati di mio padre. Poco alla volta riuscii a riprendere tutto il calore corporeo di cui avevo bisogno e scoprii di essere di nuovo in grado di muovermi. Papà mi fissava serio mentre ero seduta scompostamente a terra tremante. Lì appresi cosa fosse lo spirito della morte. Anche la Morte aveva bisogno di un contatto con qualcosa di vivo che lo distraesse dal suo dolore quotidiano, così da ricordare il significato dell’essere vivi. Aveva preso il mio dolore trasformandolo in qualcosa che non avevo mai provato, non ero in grado di definirlo, tuttavia mi faceva stare bene.

Mio padre mi disse che ero stata benedetta da Morte in persona, era un segno di buon auspicio che garantiva una vita lunga e felice. Avevo una macchia più scura della mia carnagione dove Morte aveva poggiato la prima volta le sue labbra, a simboleggiare la mia benedizione. Nessuno avrebbe mai considerato la morte come la consideravo io, dopo quell’incontro. La Morte era triste e sola, viveva con il gelo crescente dentro di sé, sopportava il dolore delle persone, lo raccoglieva come aveva fatto con il mio, interiorizzandolo. Non era cattiva, nonostante ciò veniva considerata tale, una verità scomoda che non piaceva a nessuno. Nessuno aveva mai considerato la Morte come unica certezza nella vita, dopo il tempo che ci era concesso sulla terra, ci accoglieva nelle sue fredde braccia, spazzando via tutti i dolori della nostra vita terrena. Era la Vita ad essere terribile, ci lasciava provare dolore e sofferenza, ci osservava con indifferenza, come se non fossimo figli suoi. Ci osservava con distacco mentre ci affannavamo per cercare di vivere un briciolo di felicità. Ma cosa poteva saperne la Vita, nel suo palazzo, di come vivevamo noi comuni mortali. Questa vita era triste e sconsolata, un periodo di tempo che ci distruggeva senza risparmiarci nulla.

Ogni mia lacrima era stata una sofferenza per Morte, non sopportava che provassi dolore o che soffrissi a sua presenza, non voleva questo, voleva solo essere capito, essere meno solo almeno per una notte.

 

Lisa D’Avino

© Riproduzione Riservata