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Uno strano modo di parlare – Racconto di Helen Gnocchi

Sto per uscire di casa… metto un piede sulla soglia dell’appartamento ma lì mi fermo a riflettere… Grazie alle meraviglie della tecnologia sono venti giorni che non esco di casa nemmeno per comprare il pane, perché il supermarket, che si trova dall’altra parte della strada, aspetta solo un mio clic sul loro sito web per consegnarmi la spesa. Ai tempi del signor Firmino, non più di 15 anni fa, quando ero ammalata, mi affacciavo alla finestra, appendevo un fazzoletto rosso e dopo qualche minuto… ecco che il signor Firmino mi consegnava il pane e il latte. Beh, devo prendere una decisione… se non esco di casa, nulla di meraviglioso potrà accadere! Non posso restare sulla soglia della mia vita, anzi, devo superare questo dubbio amletico che pervade la mia mente: uscire o non uscire.
Faccio un passo fino alla scala e poi torno indietro con una scusa: avrò lasciato il fuoco acceso?
Il telefono suona, ma non è nessuno che voglia davvero sentirmi, è una signorina, dalla voce insicura e affrettata, che parla, parla… ed io faccio finta di ascoltarla appoggiando la cornetta del telefono sul tavolino dell’ingresso. Mi avvicino allo scrittoio, prendo una penna in mano per scrivere l’elenco delle spese come facevo una volta ma, improvvisamente, sono interrotta dalla voce della signorina di prima: Pronto, prontoo, prontooo…
Riprendo la cornetta in mano e la saluto con un gentile, sobrio e insignificante Arrivederci, poiché non l’ho mai vista e mai la vedrò. Decido allora di fare la spesa online e accendo il computer: un kilo di patate, mezzo kilo di carote, 500 g di fagioli, latte e pane, punto. Appoggio la mano sul mouse ma prima che io riesca a premere l’invio, un suono intermittente di tre note musicali interrompe il mio idillio.
Seduta davanti al computer, via Skype, ricevo una chiamata da Maria Rosa Fontebasso, una professoressa e scrittrice italiana che vive in Brasile da quando aveva 8 anni di età. Vuole portarmi a conoscenza del suo nuovo racconto, La Parola. Direi molto adatto, visto che ultimamente le mie conversazioni si limitano al miagolare con il mio gatto. Era lei la donna che credeva che la vita fosse una sfida; una cittadina del mondo, come si definiva molte volte.
Ho iniziato ad ascoltarla, persa nell’infinito delle sue parole, mentre le emozioni mi hanno rapita. La storia di Maria Rosa, ossia lei stessa, nel vissuto della sua perdita dell’identità italiana e l’acquisizione forzata di quella brasiliana attraverso la naturalizzazione mi lasciava basita.
– Sai, Elena, mi disse, a un certo momento ho pensato che mi mancava l’Italia, che dovevo tornare alle mie radici, che dovevo ritrovare la mia voce italiana.
– Ti capisco, dissi.
– Non è vivere quando sopravviviamo con la nostalgia di qualcosa che abbiamo lasciato alle spalle.
– Si, Maria Rosa, la nostalgia di qualcosa che non abbiamo mai lasciato.
Tra la nostalgia dei rossi papaveri e del profumo del minestrone, lei viveva un disagio. Aveva ora la necessità di ricordare le parole della lingua italiana e di non sentirsi straniera nel paese natio. Doveva recuperare un pezzo di Maria Rosa perso nel paradosso della sua vita… ed io nel mio. Continuò…
– Il non conoscere la lingua mi provocò un vuoto d’anima, una mancanza d’identità o un’identità dimenticata. Scoprire la causa del mio malessere fu il primo passo verso la scoperta di me stessa.
– Non è mai tardi per trovare la strada…
– Ai miei 75 anni di età, tornare a scuola per balbettare le parole addormentate nella mia memoria e perse nell’effimero ricordo di una bambina italiana era difficile, ma era l’unica strada per ricongiungermi a me stessa.
Maria Rosa Fontebasso, questo era il suo nome italiano, era dimenticata nel tempo, ma poi piantata e ora trapiantata sulle sue stesse radici.
Allora penso… l’uomo non può essere come un albero, fisso sulle sue radici, aggrappate a un unico suolo, a un’unica terra, saldo e indissolubile da essa, ma deve essere libero come un passero che impara a volare attraverso gli oceani del mondo per raggiungere diversi universi. Le radici sono come qualcosa d’interno a noi, qualcosa che portiamo sempre con noi, come il nostro spirito, qualcosa di cui non ci si può dimenticare. Un filo che ci collega e ricollega a tutto e a tutti coloro che partecipano alla nostra esistenza.
Un breve silenzio interruppe le nostre parole.
– Ma tu, Elena, non hai mai pensato di ritornare?
– No. Forse un giorno… Il Brasile è rimasto lì, in un luogo dove ho raccolto tutti i ricordi dell’infanzia. Come se la mia vita fosse divisa in due, con un tempo prima e un tempo dopo che si congiungono formando la persona che sono.
– Capisco, annuì Maria Rosa. Due parti differenti di un tutt’uno.
– Come una mela, direi. Sai, Maria Rosa, io e te siamo come il negativo e la fotografia, due parti complementari, dalle quali possiamo rivedere il nostro ricordo, unico. Viviamo tra la nostra italianità e la nostra brasilianità.
– È vero, disse e poi continuò… domani parto, ritorno in Italia. Voglio rivedere le immagini che restarono nella mia memoria e riascoltare la mia lingua. Buonanotte cara Elena, a presto.
Ci siamo salutate con un dolce sorriso sul viso, con il tono della voce leggero e infinito come il pensiero umano, la voce e il verbo; tutte le meraviglie della tecnologia, se usate con parsimonia, sono il filo che ci collega a tutto, al nostro passato e al nostro presente attraverso l’oceano che ci divide: io in Italia e lei in Brasile.
Il verbum, anche se in una maniera insolita, ci ha accompagnato tutto il tempo, rivelazione che la parola è il principio, il mezzo e la fine.

 

Helen Gnocchi

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