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Ultima estate – racconto di Vincenza Parisi

Nina, finiva col riapparire, come da un baule magico, più di altri. Forse proprio perché una delle ultime a sparire, inghiottita da qualche mostro maligno, anche lei, come tanti,finiva per ritornare per prima.
Era là, semplice e affettuosa, con il suo sguardo dolce e melanconico, la sua voce leggera e le sue piccole manie. Cosi cara, ad invitarla, ancora una volta a sedersi a tavola, che subito il pranzo era pronto. Come da un racconto arcaico o una fiction moderna, si riannodava alla volta precedente, ma era sempre immediato, come solo accade con le situazioni pure.

Era chiara, Nina, anche se non di nome,come una fonte, una nuova Heidi, quasi,a volte, pensava, ridendo, di soppiatto, sua cugina Enzina,con le sue ingenue divagazioni e i suoi interminabili sproloqui familiari.
Sembrava, a volte, un Natale in casa Cupiello, in diretta, pur essendo gli anni 80-90. Beautiful o il Segreto,forse erano i soli che potevano farle concorrenza.
Rideva a volte, forte, la cugina Gio.
Era là, anche quella volta, che era tornata, Emma, dai suoi cari cugini,una terribile, primavera,col cuore a pezzi, gli occhi sprofondati e neri, che Nina, tentava di consolarla, in tutti i modi.

Lei, Nina, che non era una donna di viaggi,grandi esperienze di vita,con una sensibilità quasi unica, quasi una sorella, più che una cugina.
Così in quei giorni tempestosi di marzo, l’aveva portata nei luoghi che meglio conosceva per distrarla.
Com’era bella, la Reggia di Caserta, con tutti i cugini, come una specie di grande gita scolastica,forse in ritardo, dove si erano ritrovati propri tutti. Anche le cugine, che abitavano a Roma, e altrove, erano là, quasi come anni, prima, nelle loro interminabili estati colorate e chiassose, da quindicenni, figlie degli anni 70 e 80. E poi l’aveva portata al monastero di Cassino,con anche le inossidabili zie, le sorelle di Nonna Maria, che non uscivano dal paese, forse da dopo la guerra.

Si erano portate, i viveri, le zie, come in una scampagnata, di quelle pasquali, di una volta; e senza tante cerimonie, s’erano messe là, sul cofano della Alfetta di zio Franco, detto Ciccillo, il professore,a preparare i panini, proprio come se fosse un tavolino da pic nic.
E la Pasqua, era in,effetti, alle porte, quel nefasto marzo,1988.
Ah, che mito, zia Fonzie, come l’avevano ormai battezzata, negli ultimi anni,per la sua grinta e spassosa simpatia. Impossibile non amarla o non odiarla.
Non c’erano mezzi termini con lei. Come con il Toro. Pensò.
Tutto scivolava, ormai, dopo i fatidici 40, come in un grande calderone,
una sorta di archivio Nasa, tantissimi dati, immagini, come pezzi di un puzzle da ricomporre ogni volta. Sorrideva, Gio, quando si trattava, di paragoni, inverosimili,lei era una maestra, e in tutti i sensi, visto che insegnava in una scuola elementare,
da quando aveva finito il diploma, brava, subito a prendere il posto.

Come Angelina, minuta, lentigginosa, una cascata di capelli neri ricci,
col nasino alla francese, l’apostrofava, cugino Toni, sempre un po’ imbronciata,come se avesse un diavolo per capello, proprio come era sua madre,la grande zia Irma, anche se di dolce, almeno, all’apparenza, aveva ben poco.
Anche Angelina, aveva subito messo la testa a posto, e si era trasferita a Roma,
pur tra qualche lacrimuccia,di tutti. Come se Roma fosse in capo al mondo.
E lei, zia Irma, uguale, minuta, arrabbiata, ma più torva.
Ricordava, ancora quella volta,che, ai sedici anni e poco più, una delle tanti estati lampo delle sue vacanze campane, l’aveva guardata come se volesse farle una radiografia istantanea,e aveva sentenziato,con voce roca e brusca, che non doveva essere cosi malinconica ,che c’era tempo per esserlo… E poi si era voltata,come faceva lei,e aveva ripreso il filo dei suoi pensieri misteriosi.

Era, da sempre, una sorta di sergente di ferro, per tutti i cugini, la zia Irma,
coi suoi ricci scomposti, i suoi occhi seri, la sua voce roca,il suo sguardo interrogativo, quasi sempre, con un che di minaccioso. Eppure, quando, si sedeva,per la merenda, si trasformava,in una sorta di angelo custode,gentile e comprensivo.
Ma era un’estate di colori, di vento, di lagune, di mare, di pinete, di compleanni, di attese del futuro. Quel 1987, non sembrava cosi speciale, o forse si.
Era anche tempo di, crisi, di grandi interrogativi, post maturità.
Con tutti i se e i chissà, che galleggiavano nella mente, alti alti nel cielo come nuvolette.
Erano là e non se ne volevano proprio andare, ripeteva, una vocina, nascosta,
che tentava,di scacciarli, come mosche appiccicose, là,nel bel mezzo del futuro che sembrava un’autostrada della Salerno-Reggio Calabria.

C’erano ancora i juke-boxe, al chiosco del bar sul lungo mare di quel tratto di statale,a due passi dalla città, ma che lì come una cattedrale nel deserto, troneggiava,maestoso,coi suoi stornelli ripetitivi e allegri di fine anni 80.
Aspettava Nina, e lei arrivava, puntuale, con la sorella Francesca, a bordo della 126,che sembrava una berlina,quando si andava a fare spese, insieme,come in un remake di Thelma eLouise.
Francesca,tranquilla, rispettosa, quasi mai indisponente, tranne forse, quella volta,che rispose male a un suo presunto spasimante, un certo Cecco, alto e lungo,come un cipresso, dallo
sguardo un po’ anemico, biondo,misterioso, con un sorrisino che spuntava,di tanto in tanto dalla sua
fila di denti bianchissimi.

Era dolce, Cecco, come un babà, quando poi usciva dal suo guscio ironico.
Insomma, un vero cavaliere, un gentlman, nel buco del mondo.
Ancora, dopo anni, si chiedeva, perché mai sua cugina Francesca l’aveva fatto scappare.
Ma non si parlò più di quei giorni, se non una volta, forse, che lei, accennò a quei giorni,lontani, brutti, ma anche rischiarati da quella presenza leggera.
Forse, solo zia Mag, aveva risposto, al suo dubbio.
Era andato via, forse perché Francesca aveva avuto paura di lui,della sua infinita dolcezza.
Forse non ci credeva. Come la canzone che era in voga, in quegli anni,
l’angelo azzurro,era lui e se n’era andato.

Sembrava il luna park, quel bar tinto di giallo e di rosso, come due macchie felici di papaveri,con le sue canzoncine che si sfilavano una dietro all”altra,come un rosario di perle di zia Fonzie o zia Guendalina, sua sorella.
Lei, detta zia Lina,per i più, l’ombra fedele di zia Fonzie e la bocca più grande e pericolosa del West, aveva detto qualcuno. Ma non ricordava più chi.
E che altro, si poteva, fare, nel bel mezzo del nulla, di un lungo mare quasi, statale,fra casette diroccate e case in costruzione,molte abusive,dove c’erano solo le tenute dei ricconi con le bufale, con cui a volte, diventava quasi necessario scambiare due parole e i cani randagi,come Ciccio,che aveva chiamato così, quel meticcio bianco e marrone, tutto a chiazze, magro magro,che le veniva incontro,quando vagava nella campagna
vicina, nel pomeriggio interminabile di agosto.
E quando il pomeriggio delle domeniche d’agosto, fra il nulla, Ciccio, a volte,introvabile,nascosto in qualche casolare o in qualche anfratto, le bufale chiuse nella stalla e il chiosco troppo lontano da raggiungere, da soli, diventava più che azzurro,infernale,come una giornata sull’autostrada, a metà tra la prossima area di sosta e il prossimo autogrill.

E i dubbi del futuro diventavano giganti,eroi di fumetti,cattivi cattivi,
sicuramente nemici quasi invincibili.
Nina, una domenica, l’aveva portata, anche alla messa nella nuova chiesa, della parrocchia di Briano,che sembrava il nome di un panettone, là, nuova nuova, dopo i restauri,con le vetrate colorate, vestita a festa.
Lei, Emma, si lasciava portare, come un cane al guinzaglio,con gli occhi spenti,senza quasi volontà.
E finì anche quell’estate interminabile.
Ma poi, si ritrovarono, in un flashback, tutti,cinque estati dopo.
Il lungo mare del chiosco colorato era sparito, come tante case.

Alcune erano diventate ville a tre piani, anche la casa estiva di zio Vic era già a buon punto.
Ciccio era finito chissà dove, le bufale, probabilmente vendute, l’opprimente calura si era addolcita,tanti se erano andati via.
Poi, si erano visti, ancora una volta, tutti ormai grandi, con rispettivi compagni e mariti, mogli,figli. Tutti o quasi sistemati. Sorrideva, pensando a quella parola, che non aveva mai digerito,come uno di quei polpettoni di zia Angie, cosi pieni di tutto.
Sorrideva, alzando gli occhi al cielo, ascoltando magari una canzone dalla radio che riproponeva i fantastici anni 80, magari, mentre scriveva una email, che ormai le lettere,non le scriveva più nessuno, come le cartoline.
E vedeva tutti, in una specie di foto di gruppo, gigantesca, blu e bianca, stretti e allungati, volteggiare nell’aria, quasi come in un dipinto di Chagall.
Mentre girava lo sguardo, vedeva, lei, cara Nina, sempre sorridente, anche al telefono, quella sera che non era più quella di prima.
Sorrideva, un’ultima volta, mentre, probabilmente le stava dicendo addio.

 

Vincenza Parisi

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