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“Spinning away” – Racconto di Antonio Giovanni Piras

Due grattacieli, due torri affiancate l’un l’altra. Biancarosa guarda il sole nascere in mezzo a loro, in un umido mattino di fine agosto. La città riposa coi suoi sogni ed i suoi incubi. Biancarosa non  ha dormito tutta la notte. È in fuga dal suo demone. Il sole, misto a residui di moonshine e dub, la intrappola in universo parallelo. Mai l’avvicinarsi dell’autunno era stato così pesante.

Lentamente inizia a sussurrare una canzone d’infanzia.

Un po’ canta la sua storia, un po’ canta quella notte.

Solo per certi versi sente che è sua.

Ma non importa, il volume cresce, accarezza le note più alte.

I raggi del sole si riflettono sulla baia.

L’intensità sale, arriva il suo pezzo preferito e inizia a volteggiare.

Ora è padrona di se stessa fino a quando, lentamente, l’effimero spartito si esaurisce, cala il sipario sulle tenebre e Biancarosa capisce che dovrà tornare in quel lurido tugurio da cui è uscita nel tardo pomeriggio

Toglie il mantello, abbassa  il cappuccio felpato della giacca e rivede sulla pozzanghera fangosa il riflesso di Giada, il suo riflesso.

Pensa a Dwain, pestato a sangue qualche ora prima.

 

Due colpi di clacson, un fischio, Martin parcheggia davanti casa Pascal.

Mr. Pascal esce con quell’aria imbronciata di prima mattina che, di solito, lo accompagna fino al suono della sirena giù alle industrie Frozen.

– Dwain, bazzichi ancora con quel Martin figliodiunacagnaebrea?! – ringhia Mr. Pascal.

– Ehi! È vero che mia madre non si è mai vista, ma giù al China Center mi ha mandato i saluti Chao Lin. Si proprio al centro massaggi. Ha dimenticato la patente! – ribatte Martin ridendo di gusto

Mr. Pascal sbotta e rientra dentro. Dwain esce di casa e si porta in spalle la tracolla, quella color El  Alamein, come diceva lo zio Solomon, e guarda il padre che, quasi sicuramente, pensa ancora a Chao Lin.

– Mamma, esco con Martin. – dice rassicurando la giovane vecchia immobile sulla carrozzina.

Forse l’ha sentito o, forse, non l’ha neppure visto.

– Non tardiamo. Usciamo a fare una scampagnata, lungo il fiume. Riguardati. – continua baciandole teneramente la fronte, mentre due piccole fessure, verdi ed incavate, lo fissano a vuoto.

Salta i gradini, sale sulla familiare color crema scaduta e tira una gomitata a Martin.

– Sei stronzo!

– Tuo padre è uno stronzo…

Partono con una leggera accelerata, si guardano indietro e prendono velocità.

 

Due marce indietro, freno, frizione. Lei è all’incrocio. Iride d’ambra, ciocche di grafite da un lato, chioma rasata e sfuggente dall’altro. Fuma John Player Special, rubate al fattorino sotto casa. Si toglie il piccolo guanto coronato dallo smalto acceso delle unghie e stampa un bacio sulla bocca di Martin.

– Avete portato tutto?

– Solo mirtillo e gallette per te, piccola. – risponde Martin.

– Solo seghe e fumo per te, Mart! – sogghigna la new entry.

Dwain arrossisce e Giada lo nota. Sorride e gli da un bacio sulla guancia.

Anche il quarto stronzo raggiunge la comitiva. Alan toglie gli occhiali da sole a specchio e saluta tutti. Molto probabilmente non ha dormito tutta la notte.

Horsedied non è lontana. Qualche baracca più a nord della zona industriale, proprio davanti alle Frozen, si apre un viale di ciliegi. Martin lo attraversa con la familiare e fuma dal finestrino aperto. Alan scarta un disco dopo l’altro dal raccoglitore consunto.

– Ehi, ma da quand’è che non aggiorni questa raccolta? – chiede stupito.

– Più o meno da quando non tocchi un ragazza, Al.

– No sul serio, in Vietnam ascoltavano di meglio!

– Erano quella merda di anni ’60! Per forza ascoltavano di meglio! – risponde Martin, schivando una pozzanghera al retrogusto di morte.

– Metti questo.

Alan spinge dentro il lettore un album senza titolo che stranamente gli suona bene.

Giada guarda assorta fuori dal finestrino posteriore. Vorrebbe fumare anche lei, ma non ha voglia di cercare le sigarette. Sbotta un po’ e si appoggia con dolcezza sulla spalla di Dwain.

– Dove andiamo? Io ho già fame. – chiede stancamente.

– Un attimo piccola. Sosta ad Arville poi proseguiamo verso il lago. Non vedi l’ora di spogliarmi vero? – scimmiotta Martin.

– Cosa c’è ad Arville?! Una Chiesa diroccata, due o tre anziani sotto il sole, una fontana!

– C’è l’unico distributore nel raggio di 20miglia!

Dwain fissa la strada ipnotizzato. Per lui Arville o Housedied fanno lo stesso. L’importante è non stare a casa.

Il viale finisce prima del previsto. La strada, dissestata dalle ultime piogge, si contorce all’interno delle campagne. La familiare odora di fieno ed erba, quella che inizia a fumare Alan senza avvisare i compagni di viaggi.

 

Arville è uno sputo sulla brughiera limitrofa alle Frozen. Un paesino decadente che fa da passaggio per i lavoratori delle industrie, i cacciatori di fagiani e le famiglie in gita la domenica. Dwain e gli altri non rientrano in nessuna di queste categorie, ma passano spesso di là.

Al centro della piazzetta principale la chiesa diroccata di St. George. Una piccola costruzione ad una navata. Del campanile rimanevano i mozziconi sparsi sul sagrato. Il vecchio Arcivescovo l’aveva sconsacrata da un bel po’ e contemporaneamente aveva inaugurato un posto adatto per finti satanisti e occultisti da quattro soldi.

Alan parcheggia, aspira fino al filtrino gli ultimi rimasugli di erba ed esce per primo. Si sgranchisce le gambe e ride senza senso. Roba buona ad Arville.

Quattro signori seduti sul portone della chiesa fissano le poche tegole rimaste sull’edificio di fronte, raccontando frottole sulla presunta campagna delle Ardenne affrontata dal signore più anziano. Molto probabilmente non sanno neanche dove si trovano le Ardenne.

Giada guarda la vetrata anteriore dietro l’altare e rimane incantata dai disegni  sul vetro. Un drago trafitto, un cavaliere rampante, una schiera di puti e cinque fiamme sospese nell’aria.

– Chissà cosa fumavano di bello nel medioevo!

– Streghe. – risponde Dwain sorridendo.

– Entriamo?

– Perché no. – interrompe Martin arrivando con la borsa frigo.

 

Polvere e fasci di luce dietro l’altare spoglio. Santa Rita e San Patrizio a far da guardia al grande cero pasquale. Dwain gira in trance tra i piccoli banchi laterali, dismessi da chissà quanto tempo. Si stende in quello che sembra il più sicuro. Non pensava potesse essere così bello il soffitto di una chiesa diroccata.

Martin gioca a baseball con un  candelabro seminuovo e la testa di un santino.

– Mart è pur sempre la statua di un santo! Non puoi cercare l’home run. –sorride Al.

– Fotte una sega. Il buon vecchio Arcivescovo Filippo venne qua una ventina di anni fa e, con grande sconforto, rimise tutta la baracca in mano ai civili. Fine dei salmi.

– Dici che fu un esodo di bigotte?

– Una marea di bigotte. La morte di Arville. –conferma Martin sarcastico beccando la vetrata vermiglia con il cranio benedetto.

Giada è appoggiata pensierosa sull’altare. Sua madre è una di quelle bigotte. Se avesse saputo solo la metà di quello che le passava per la testa, avrebbe abbandonato fede e compagno alcolizzato.

Dwain le guardava il culo di soppiatto, ancora sdraiato sul banco. Aveva proprio un bel culo.

Lei si risveglia dai suoi pensieri e sale sull’altare. Inizia a danzare con gli occhi chiusi, inseguendo i fasci di polvere e luce che trasudano dalle vetrate sconnesse.

Si, per Dwain è proprio bellissima.

– Ragazzi, ho fame. Molliamo questa caverna. –richiama l’attenzione Al.

Giada, si ferma all’improvviso e scopre Dwain a fissarla. Un sorriso, nient’altro.

 

Fuori inizia a far caldo. Dei vecchi neanche l’ombra. Di ombra, neanche l’ombra.

Al decide di proseguire verso Horsedied, stappa quattro birre e rolla un’altra canna. Non sia mai il viaggio possa essere troppo lungo. Accende la macchina e precisa:

– Ragazzi avete visto? Dietro la chiesa, il giardino era curato e in ordine. Qualcuno si preoccupa ancora di questo paesino.

– Quello è il vecchio cimitero, coglione. Certo che qualcuno lo cura ancora! –risponde Mart.

– Io penso che, se fosse un cimitero, per giunta vecchio, dovrebbe essere lasciato in pace. Insomma se una cosa è vecchia nessuno dovrebbe curarsene e…

– Tua nonna è vecchia Al! Eppure la curano anche troppo! –interrompe Mart ridendo.

– Sei il solito cazzone. – Al svuota la bottiglietta di birra e lascia andare fuori dal finestrino. Il vetro non si infrange ma rotola sulla sponda del piccolo torrente  Horsedied.

– Ma, secondo voi, perché proprio Horsedied? –chiede Dwain guardando la bottiglietta andar via.

– Semplice, –rassicura Mart– un cavallo passeggiava sull’argine in un giorno di piena ed è caduto dentro il fiume. Il povero padrone del cavallo, –imita il povero padrone del cavallo–  di rientro da una dura giornata nei campi, trova il puledro annegato e, affranto dal dolore, maledice il fiumiciattolo apostrofandolo “Horsedied”.

– “Apostrofandolo” te lo sei inventato! –sfotte Giada­.

­­– Ma poi chi vi dice che il cavallo sia morto affogato! ­–seconda birra per Al e continua – Insomma! Potrebbe aver avuto un malore, un mancamento ed essere caduto nel fiume. E il povero fiume non avrebbe nessuna colpa in questo caso.

– E il padrone?! –prosegue Dwain– Come mai nessuno si caga il padrone? Magari  è morto assieme al cavallo e nessuno  gli ha dedicato niente!

– No, impossibile! –decide Al­­­– Se fosse morto il padrone avrebbero dedicato il fiume a lui. Con buona pace per il cavallo! È pieno di stronzi a cui dedicano fiumi e strade!

Aveva ragione, quella stradina sconnessa, di campagna era dedicata al più stronzo di Arville e dintorni, il fondatore delle Frozen: Sir Chester Bucklagan, Sir General Caster come lo chiamava il padre di Dwain. Aveva inquinato metà contea, ma dato da mangiare all’altra metà e… fotte un cazzo del rispetto per l’ambiente e gli ambientalisti tutti.

 

Il laghetto era una distesa semiseria di acqua e ninfee. Ogni tanto qualche pesce risaliva a pelo d’acqua. Tirava afa anche là in fondo.

Al parcheggia la familiare sulla sponda ovest, proprio di fianco alla stradina, esce dalla macchina e si fionda verso la riva.

– È calda ragazzi! –dice con poca convinzione. –Chi si butta per ultimo non fuma la prossima canna!

Detto ciò abbassa gli short e mostra fiero le gambe rachitiche e gli slip che hanno conosciuto tempi migliori, sugli scaffali dei Grandi Magazzini.

– Al, questo spettacolo potevi risparmiarlo! –temporeggia Giada. A lei non va molto di mostrarsi per quello che è, sentirsi imperfetta e desiderata dagli occhi di tutti.

Martin e Dwain non se lo fanno ripetere due volte. Si buttano in acqua come due trote che risalgono il torrente. Ma Al non è l’orso, è più trota di loro. E ride, ride di gusto. L’acqua non è poi così  fredda se hai i tuoi amici che ridono come pazzi. Saltano, schizzano, si tuffano. Il lago in fondo è la pista da ballo “Horsedied”.

Giada accende una canna, si toglie la maglietta e rimane col reggiseno. Sul braccio destro scorre un tatuaggio rosso e bluastro, due fenici che si contorcono e si riuniscono nell’esile polso della ragazza. Raccoglie i capelli, mette in vista la seconda scarsa che si ritrova e abbassa la gonna.

Comunque vada è uno spettacolo, pensa Dwain. E non riesce a non fissarla. Come entra in acqua, anche lei presa dall’euforia, si attacca d’istinto a Martin, che la bacia con passione. Il bacio è ricambiato. Stanno bene assieme, non per Dwain.

Dallo stereo sfasciato dell’utilitaria parte una vecchia hit degli anni 90. Forse la cantava la nera famosa di turno o forse qualche ossigenato dalla voce nasale.

In acqua riparte il concerto dei giovani corpi. La felicità è a un passo da quella musica cacofonica, dal lago salmastro, dai capelli bagnati sugli occhi di Giada.

– Basta ragazzi, io esco! –dice Mart sfinito. –Vieni con me piccola? –prosegue fissando Giada intensamente.

– Rimango un altro po’. Tira fuori qualche birra.

 

Il cielo non è poi così limpido, ma per essere la contea più piovosa della regione è anche una botta di culo. I quattro distesi, provano ad asciugarsi e fissano le nuvole.

– Quella… sembra un cavallo. –biascica Al guardando due cirri affusolati che, al massimo, sembravano due furetti.

– Cazzo dici! Dove lo vedi il cavallo! –ribatte perplesso Mart.

– È lui ti dico! Ma non un cavallo qualsiasi, quello del fiume! Quello morto affogato o per malore come dicevamo. Anche i cavalli devono avere un posto dove andare quando crepano.

– A me sembra un… una zebra. –richiama sognante Giada.

E in effetti quelle piccole striature grigie, sul bianco spumoso, potevano assomigliare, ricordare il quadrupede. Più probabile fossero gli acidi di Al, sempre e comunque, a far ridipingere il grande circo delle nuvole.

 

Sul lato est del lago la carcassa di un piccolo furgone commerciale si stagliava come un totem. Ricoperta di muschio e scardinata da un cespuglio che cresceva sul lato passeggero, offriva un ottimo bersaglio per la carabina di Al. Tre, quattro colpi a segno. Gli altri si perdevano nel boschetto limitrofo al lago.

Giada trasportata dal vento si avvicina alla vecchia carcassa. Tocca quasi in maniera impercettibile quel cumulo di lamiere e ruggine, soffermandosi sui fori del proiettile. Dopo un po’ entra nell’auto e si stende. Sente un profumo di libertà in tutto ciò. Dwain la segue, un po’ annebbiato dal fumo, quasi certamente dall’alcol. Si siede vicino a Giada e la guarda immobile. Lei si gira e lo bacia.

-Da quand’è che lo aspettavi Dwain? – gli dice, confusa.

-Non lo so. So solo che lo rifarei di nuovo.

Martin vede la scena da lontano, molla la bottiglia che ha in mano e senza pensarci due volte si dirige verso la macchina.

 

Biancarosa sa che non c’è più niente da fare. Le lesioni che ha subito Dwain sono troppo gravi. Non ce l’ha fatta, non è riuscita a rimanere al pronto soccorso. Il padre è stato avvisato da un’infermiera, la madre se n’era andata qualche anno prima. Anche se ormai non si sentivano da un po’, le è sembrato giusto lasciare il numero di qualcuno

Da quel pomeriggio a Horsdied sono passati 6 anni. Il cielo si è fatto più pesante sopra i due ragazzi. La vita è cambiata un po’ per tutti.

Mart si è arruolato, la storia con Giada era solo un compromesso. E comunque quel bacio tra lei e il miglior amico voleva dire qualcosa. Uno la scarica di pugni che gli diede a due passi dal lago, due che non valeva bisticciare per una ragazza che non si meritava.

Ma  no, quella notte non era stato lui purtroppo. Due balordi all’uscita dal Club avevano lasciato esanime Dwain sul marciapiede. Forse per i pochi spiccioli che aveva in tasca, o solo per divertimento.

Giada era arrivata in ritardo mentre ancora suonava quel motivo che l’aveva accompagnata fino all’alba, vagando per la città:

 

On a hill under a raven sky

I have no idea exactly what I’ve drawn

Some kind of change, some kind of spinning away[1].

[1] Tratto da “Spinning Away”, di Brian Eno e John Cale.

 

Antonio Giovanni Piras

 

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