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Si comincia – Racconto di Silvia Cipolletti

Gambe piccole e sode ciondolavano accavallate sotto la scrivania: troppo piccola per rappresentare l’ego del Professore, troppo ordinata per raccontare l’anima voluttuosa del Velista che amava nutrirsi di sogni irrealizzabili.

Le sue mani, di dimensioni contenute, misurate nei gesti, tamburellavano rigide ai bordi del tavolo, ai lati dell’i-phone dove il suo sguardo sostava fisso, pensieroso.

Nel primo pomeriggio, dopo il pasto silenzioso in compagnia della moglie e della figlia, chiuso nello studio dove trascorreva il sacro momento della digestione, circondato da libri ancora da leggere e tesi degli studenti ancora da correggere, sentiva il tarlo di una pulsione incontrollabile trapassargli il cervello, veicolo di controllo e censura, accompagnato dall’eco incessante dei ricordi. Al Professor Lauricella non accadeva mai di perder tempo in inutili congetture – “disciplina” – diceva – “ci vuole disciplina nel lavoro come nella vita” -, era solito isolarsi nelle quattro mura del suo studio evitando qualsivoglia interferenza. Non era un buon segno che quel pensiero s’ingigantisse senza controllo, più cercava di non ascoltarlo più sembrava alimentarsi della sua stessa volontà di allontanarlo: produceva più rumore del frinire delle cicale che, al di là della finestra aperta, erano libere di confessare il proprio bisogno d’amore.

Lo spot pubblicitario che, da un paio di sere, arrivava puntuale dopo il telegiornale a mescolare ansia al desinare familiare, quel giorno s’insinuo, più imperioso del solito, nel lavoro che precede le sue “parlate”. Era così che chiamava le lezioni all’università e gli interventi ai convegni di medicina dov’era, sovente, invitato a relazionare. Augusto preparava le sue “parlate” con attenzione certosina, cronometro alla mano. Il suo lavoro non conosceva né domeniche né feste comandate. Ripeteva le sue parlate dopo cena e continuava, sino a tarda notte, terminando lavori di ricerca o aggiornando il suo curriculum. Altre volte si rovinava il sonno rispondendo ad e-mail dei pazienti che, durante il giorno, avevano tentato di contattarlo tramite i social. “Insolenti! Insolenti, insolenti!”, ripeteva con disappunto nel silenzio del suo studio. Li chiamava “i molestatori” quei pazienti “impazienti” che “si infilerebbero pure nel buco della serratura del cesso!” pur di placare le proprie ansie.

Fece decantare quell’infido pensiero, che scandiva il passare delle ore, lasciando che si sfamasse di sé. Era diventata un’ossessione quella pubblicità che s’insinuava nelle sue giornate recitando così: “love your imperfection – se non ami le tue imperfezioni qualcuno lo farà”.

Le tende accostate, carezzate dal vento, filtravano sguardi indiscreti assieme ad infuocati raggi di sole. Non amava l’aria condizionata, gli accentuava la fastidiosa rinite mattutina. Preferiva le finestre socchiuse: un po’ di calore non ha mai ucciso nessuno, pensava, mentre con leggere torsioni del torace lasciava che la camicia gli tamponasse ogni goccia di sudore.

Nel suo studio lavorava, rifletteva e immaginava senza intromissioni: invasioni di campo non erano ammesse senza il permesso del “Professore”. Eileen, la cameriera Filippina che lavorava da lui da quasi quindici anni, aveva rischiato il licenziamento il giorno in cui irruppe nello studio del Professore urlando perché tra le lenzuola di uno dei letti della famiglia aveva rinvenuto un’enorme falena morta: “Bussare! È buona educazione bussare Eileen! La prossima volta che accade dimmi che è morto qualcuno o te ne vai a pedate nel culo! Chiaro?”.

All’interno di quelle quattro mura ogni oggetto era un amuleto e ogni movimento parte di un rito propiziatorio. La penna a sfera, oramai in disuso da diversi anni, posizionata nel portapenne nell’angolo sinistro della scrivania, era il regalo di un vecchio paziente rimasto fedele al giovane dottore: l’unico al quale era ancora concesso di chiamarlo “dottore”. Sul lato opposto, all’interno della propria custodia, c’erano un paio di occhiali da vista: reliquia del giorno degli esami di laurea in medicina. La camicia a quadri che indossava durante il “lavoro in casa” era sempre la stessa, alternata ad un’alta che aveva fatto realizzare su misura con un tessuto quasi uguale all’altra: Eileen aveva il compito di lavarle, stirarle e riporle nel proprio cassetto – perché il Professore ne potesse sempre trovare una pulita – insieme ai camici bianchi e alla biancheria che il Professore usava soltanto in ospedale.

Durante il week end trascorreva gran parte del suo tempo in casa, chiuso nello studio. Dopo ogni pasto, saliva lentamente le scale, entrava e richiudeva la porta alle sue spalle. Poi, prima di sedersi a lavorare, passava davanti alla grande libreria a parete, dov’erano conservati, sino al soffitto, tutti i testi di medicina ereditati dal padre, anch’egli medico. Girando intorno alla scrivania alzava la mano come per carezzarli, poi si avvicinava alla finestra e liberava lo sguardo verso l’orizzonte: ecco, era pronto. Scostava sonoramente la sedia, così che tutti al piano di sotto potessero ascoltare, si sedeva e dava inizio alle sue fatiche.

L’orologio sopra la porta segnava le diciotto e trenta quando il Professor Augusto Lauricella si rese conto dell’inutilità dei suoi sforzi: non riusciva a concentrarsi e non avrebbe saputo dire da quanto tempo si trovava così, inerme, di fronte all’immagine di quella pubblicità, fissata nella mente, impossessata dei suoi pensieri. Osservava l’app di quel social, scaricata sullo smart phone alcuni giorni prima, in uno stato di torpore e di tanto in tanto ci cliccava sopra, silenziosamente, quasi a temere che anche il pensiero di quell’incosciente tentazione potesse essere udito da qualcuno al di là della porta chiusa.

E’ inconcepibile, pensava, giustificando con tale aggettivo l’impossibilità di continuare a lavorare. Sono stanco, si ripeté, più e più volte, nel tentativo di riconciliarsi con la realtà.

Dalla finestra, nel frattempo, la voce della figlia irruppe nelle sue riflessioni e involontariamente si mise ad origliare. Annina, sdraiata supina al bordo della piscina, parlottava al telefono con qualcuno, ridacchiando di tanto in tanto. Certamente un’amica, pensò. Avrebbe preferito immaginarla a parlare con un fidanzato. Quella ragazza mi preoccupa, confidava spesso ad Agata, è troppo stronza per trovare un ragazzo. Ma chi se la prende una stronza? Provò anche a sbadigliare, pensando di favorire uno stato di relax dove pensieri incauti potessero scivolare via. Fu allora che si girò e, guardando alle sue spalle, intravide tra le tende svolazzanti le gambe lunghe di Annina sgambettare incrociate verso il cielo. Sembra felice, pensò, mentre allungava lo sguardo oltre la siepe. Si poteva scorgere il mare da lassù, tra una palma e l’altra. Soltanto quella piana azzurra riusciva a rasserenarlo. Davanti a quello scenario sentì svanire l’inquietudine e al suo posto insinuarsi una calma insperata, premonitrice, forse, di eventi inaspettati? Cos’era quella quiete? C’era sicuramente una relazione tra lo spettacolo rinfrancante che gli mostrava una giornata di sole di fine estate e il pensiero audace che generava quella pubblicità. Questo pensava, quando affacciandosi dalla finestra scorse Agata che, con il naso all’insù e gli occhi strizzati dal sole al tramonto, gli annunciava la cena: “Augusto, scendi: ho calato la pasta”.

L’odore del mare aveva la capacità di rassicurarlo, come il profumo di una bella donna: nulla di male poteva accadergli con il mare negli occhi o il naso tra le pieghe del collo di una donna.

Respirando a pieni polmoni il profumo di quella distesa azzurra, si abbandonò alla nostalgia dolorosa del cuore sussurrando: “ma sì, staiu scendendo”.

L’umidità che piccava sulle braccia scoperte lo sveglio di buon’ora il mattino seguente. Lasciava sempre uno spiraglio di finestra aperta durante la notte, per respirare meglio, diceva. Con un balzo si precipitò a chiuderla, con forza girò la maniglia, e in fretta si rinfilò nel letto. Lì, immobile, con le braccia coperte e il lenzuolo sino al mento, s’abbandonò alle sue riflessioni. Il chiarore che filtrava attraverso le tapparelle favoriva un momento di raccoglimento, durante il quale Augusto tentò di rimettere ordine allo scorrere disordinato dei suoi pensieri. “Love your imperfection…”. Era sempre lì quella stramba idea di iscriversi ad un sito d’incontri per cuori solitari, ma al mattino sembrava avere un senso. Cercò, dapprima, di coglierla, pensando alla consolazione delle sue pene sentimentali, ma anche alla soddisfazione della sua indomita libido: la carica erotica e il bisogno d’amore erano diventati un groviglio informe di emozioni ingovernabili. Il suo aspetto morigerato celava una fragilità invisibile ad anima viva: una natura corruttibile, che irrompeva prepotentemente soltanto durante la navigazione in mare.
Quando il turbinio di emozioni diventava indomabile, desiderava solo andare per mare e governare la sua barca con fervore, cazzare le cime con gesti impetuosi e scivolare lontano. Solo distante dalla terra ferma tutto si acquietava. E mentre le vele si riconciliavano con il vento, il suo cuore, carezzato dal rumore del mare, si riallineava ai desideri: ecco, solo lì, solo in quei momenti la smania di vivere poteva viaggiare a briglie sciolte, per poi abbandonarsi all’immaginazione di corpi intrecciati e bocche assetate di baci.

Quel mattino tutto ciò accadde nel talamo nuziale, con Agata che dormiva sonoramente al suo fianco.
Desiderava una donna, morbida e profumata, tra le sue braccia. Lo desiderava così tanto che iniziò ad immaginare un addome liscio, una pelle giovane sopra la sua… Immediatamente il pensiero di sua figlia s’insinuò in quella breve fantasia e la vergogna, che avrebbe provato ad essere scoperto proprio da lei, fece immediatamente crollare l’impalcatura di “quell’assurda idea” e si convinse a desistere, mortificandosi per lo stato di eccitazione in cui si trovava: “mii…che razza d’idea!”.

Il volto di Annina l’aveva risvegliato: una stretta allo stomaco.
Ad occhi chiusi, fermo nel letto, aveva rivisto una stanza in penombra e il rumore di una barella fuori dalla porta chiusa. Il vociare degli infermieri sul corridoio. Una lettiga che non stava ferma. Una vetrina d’acciaio colma di medicinali. E poi quel sapore sulla lingua e l’emozione che celavano quegli occhi scuri quando si scioglievano di passione davanti ai suoi. E la felicità di un sogno condiviso. Ma anche la paura di essere scoperto e lo stato d’ansia che provava al ritorno a casa, quando ad accoglierlo sull’uscio c’erano gli occhi spenti di Agata che scrutavano nelle viscere dei suoi sensi di colpa. Cinque lunghi anni, durante i quali aveva desiderato cambiare vita per quella giovane donna. Gli anni degli imbrogli, delle telefonate sottovoce. Anni di tempesta e smarrimento. Sino a quel pomeriggio, prima di cena, quando dovette scontrarsi con il muro del silenzio di Agata, divenuto insostenibile. Sentiva ancora, come allora, il profumo degli involtini di carne nel forno e il calore sulle piante dei piedi nudi immobili sul tappeto, davanti al divano. Siediti Agata, le aveva chiesto. Dobbiamo parlare. Le parole gli uscivano spezzate, tremolanti. Non ce la faccio più, dicevano. Come uno spettatore ricordò il suono della sua voce rotta, quasi metallica, quando aggiunse “Agata, io non ce la faccio più. Io me ne vado, lo capisci? Il suono del timer in cucina accompagnò una silenziosa smorfia di disgusto sul volto di Agata, che arricciò le sopracciglia e si girò per andarsene. La cena era pronta. Quella sera, come ogni sera, cenarono alla stessa tavola. In silenzio. Come sempre.

Un sospiro di sollievo lo destò da quell’incubo. Il pensiero di Lorena, e di quel periodo di subbugli, era diventato calmo. Di una calma concessa dal trascorrere degli anni, durante i quali aveva lottato per soffocare il desiderio famelico di lei, lentamente sostituito dalla celebrazione dei propri successi professionali: Lorena era il ricordo di un romanzo appassionante colmo di appunti, lasciato a prendere polvere sul comodino a fianco al letto.

“Gracchia… La sveglia. Augusto, gracchia…” sussurrò, soffocata sul cuscino, la voce spazientita di Agata. Era accanto a lui, nel letto che condividevano oramai da trent’anni senza mai toccarsi. Da sempre sullo stesso materasso, quello buono. Da una vita circondati dagli stessi mobili di legno massello, comprati a rate e lucidati a specchio da Eileen. Era l’imperativo del Professore: “curati Eileen! Gli oggetti vanno curati! Ogni soldo risparmiato è un soldo guadagnato!”. Era lui che impartiva ordini in quella casa. Tutti gli altri facevano finta di eseguirli. Anche Eileen, spalleggiata dalla “signora Gata”, si limitava a spolverarne le parti a vista. Tutto il resto veniva pulito una volta a settimana, “come vole signora Gata”.

Tutto funzionava come un orologio da quando Il Professore la sua consorte avevano deposto l’ascia di guerra. La lotta di supremazia, messa in opera da Augusto tanti anni prima, nella speranza di intravedere nella rigida frigidità degli atteggiamenti della moglie un barlume di collera che la risvegliasse da quella innaturale pacatezza, che tanto lo irritava, era miseramente fallita: quella era la sua casa, quella era la sua vita e lei non vi avrebbe mai rinunciato. Il silenzio di Agata gli rammentava, ogni santo giorno, che la situazione era immutabile: lo guardava inespressiva per una manciata di secondi mentre lui isterico le urlava contro, poi si voltava e si metteva a fare altro. Cominciarono così ad evitare scontri e qualunque tipo di contatto fisico, diventato imbarazzante dopo tanto tempo.

La conobbe, Agata, al primo anno di università: facoltà di medicina.
La rivide arrivare da lontano, con fare buffo, pensierosa e in disordine. I suoi occhi scuri sbirciavano incerti tra ciocche di capelli ciondolanti sul viso. I suoi seni, quasi inesistenti, erano occultati da una larga t-shirt rinsaccata nei jeans. Orfana di padre, Agata era cresciuta con una madre ansiosa e una nonna che impartiva regole: una ragazza troppo giudiziosa per essere attraente.
Da un paio d’anni Augusto era fidanzato con una compagna del liceo. Donatella Mancuso, la ricordava ancora: tutta naso e minne. Una ragazzona dallo sguardo tagliente che lo soggiogava a colpi di ammiccamenti. E si divertiva a prendersi gioco di lui:“Augusto mi soffochi” gli diceva a voce alta, mentre soffiandogli in volto l’allontanava di suoi seni enormi. E ricordò la sua prima volta, proprio con quella stronza: un violento tremore, un breve momento in cui credette di morire. Un attimo in cui capì soltanto che era durato troppo poco. Era il ’76: “mii…chi laria figura…” E poi quella soffitta..

La sveglia suonò di nuovo: “Augusto…’sta sveglia…

Raccolta la giusta dose di energia, sollevò le lenzuola e balzò fuori dal letto.

Era lunedì: “Heileen? Il caffè! Corraggio, si comincia!”

 

Silvia Cipolletti

 

 

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