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Rosinella – racconto di Giovanni Giuliano

Mi chiamo Fortunato Giovanni, eredità ottenuta da qualche avo, al quale per assurdità di causa il cognome fu attribuito come aggettivo di un evento. Ho cercato nel tempo di ipotizzare l’evento: forse uno dei miei prozii nel rubare una gallina da un pollaio di un onesto contadino, fu colto sul fatto e il proprietario per difendere e legittimare i suoi averi provò a sparargli, ma il caso volle che il fucile si inceppò, favorendo così la fuga del mio progenitore ed attribuendogli in questo caso l’appellativo di “fortunato”. Ho i capelli neri e gli occhi scuri per abbinamento naturale, un corpo molto magro, ma moderatamente formato, sostenuto da due gambe strette e affusolate così da consentire un’ agilità nella corsa a distanza, uno spirito di adattamento alle situazioni generate dalla casualità della vita e un umorismo geneticamente modificato indotto dall’ironia dei miei genitori. Per una serie di eventi che si sono susseguiti nel periodo breve della mia esistenza, non ancora matura, mi ritrovo in questo momento ad essere rincorso da un omone alto quasi due metri, avente una corporatura robusta che sfiora i centotrenta chili, due baffi da dittatore che incutono paura, ed un’età compresa tra mio padre e mio nonno, il tutto inglobato in un vestiario di canotta e pantaloncini. Agitando vistosamente un braccio rivolto verso di me, credo per potermi afferrare a distanza, il signore dai lunghi baffi grida a squarcia gola: > , ma io corro più veloce di Pietro Mennea e con il vento tra i capelli, rido al gande omone. Per poter comprendere come sia finito in questa incredibile situazione, dovrei fare dei passi indietro nella storia e raccontarvi dal principio dove tutto ebbe inizio.

Era l’estate di qualche anno prima, quattro per l’esattezza, ed io con i miei amici di quartiere ci riunimmo all’ingresso di un mini market a complottare un colpo degno di una banda di giovani dilettanti nel tentativo di delinquere ai danni di un povero esercente di alimentari, lo chiamavano nel quartiere il sig. Ciccillo. Eravamo in cinque: c’era Luca Trombetta, chiamato così per la sua abilità nel far aria a comando toccandosi semplicemente la pancia con colpetti decisi e precisi; c’era Franco Squalo, chiamato così non per la capacità di nuotatore (a stento rimaneva a galla) ma per la sua mostruosa assomiglianza di naso con la pinna dorsale del pesce cane; Vito il cane, soprannome concesso dalle due sorelle che lo avevano liberato da un palo dove il padre lo aveva tenuto legato per un’intera notte, perché aveva finto di lanciare una pietra alla madre in un momento d’ira, ed infine il nuovo arrivato, Giacomino fiù fiù, bastava sentirlo parlare per poter capire il singolare soprannome che gli avevano affibbiato, aveva i denti davanti così larghi che riusciva con il movimento della lingua, quando parlava, ad emettere un fischio improvvisato tra una lettera e l’altra. Inutile dire e spiegare che il mio cognome era già oggetto di scherno in varie e fantasiose battute, fin da quando la mia memoria iniziò ad immagazzinare ogni cosa, per cui era considerato uno spreco di tempo cercare di trovare un soprannome ad un cognome di facile utilizzo come il mio. La prassi per una banda con un nuovo arrivato è quella di un’iniziazione per poter entrare con onore nel gruppo, e la prova per Giacomino fiù fiù era di entrare nell’alimentari e rubare qualsiasi cosa fosse commestibile. Naturalmente per la riuscita del colpo entravamo tutti nel mini market, e con un po’ di confusione ne uscivamo pagando solamente una pacchetto di gomme, con i ghiaccioli ficcati nei pantaloni tra la cinta e la canotta davanti, ed è proprio in quel giorno che io vidi per la prima volta la ragazzina più bella del mondo, la quale mi ha portato ad essere rincorso da un’enorme signore, all’inizio della mia storia. Attraversava la strada tenendo per mano la madre, aveva i capelli lunghi e neri come la notte e due occhi scuri e brillanti da penetrare l’anima di chi la guardasse, avvolta da una carnagione talmente chiara e splendente da far impallidire persino la luna, che pensava fosse la sola ad avere una colorazione degna di nota. Eravamo tutti e cinque fuori dal mini market in fila, come in rassegna di fronte alla più alta autorità, e in quel preciso istante lei mi sorrise. Non ho mai saputo, se fosse per il mio irresistibile fascino che mi sorrise, o perché aveva notato che sia io che gli altri quattro avevamo all’altezza dell’inguine tutti i pantaloni bagnati, come se ci fossimo pisciati sotto, in realtà erano i ghiaccioli che il caldo infernale del mese estivo stava sciogliendo. La madre tirò il braccio alla figlia, con uno strattone deciso, facendole distogliere lo sguardo da quegli individui per lei indecenti, esclamando: > . Come disse il grande Napoleone dopo la battaglia di Waterloo, “ che figura di cacca”, ma la figuraccia più tremenda la fece l’ingenuo Giacomino, perché non sapendo cosa rubare, si infilò nei pantaloni l’unica cosa che in quel momento gli sembrasse facile da sottrarre, un’ intera confezione di burro, che sciogliendosi fece assumere a i suoi pantaloni una colorazione giallastra, vincendo così l’oscar per la miglior interpretazione di un ragazzo che si piscia addosso.

L’adolescenza era alle porte, ed io non avevo mai dimenticato il suo sguardo, anche se non sapevo come si chiamasse e dove abitasse, ero sicuro di essere innamorato di lei. Per mia fortuna anche quell’anno d’estate i nostri sguardi ancora una volta si incrociarono. Ora facevo parte di una banda, non eravamo più bambini ma veri piccoli uomini, ad alcuni cresceva persino una folta peluria in faccia che ricordava una barba adulta, e da quattro individui di partenza ora eravamo una decina, per una buona metà motorizzati per avere più libertà di spostamento. Alcuni avevano motorini improvvisati, vale a dire assemblaggi di motori di varie epoche ereditati dai nonni, ormai stanchi di quei ciclomotori anteguerra, invece altri avevano veri e propri motori moderni, vespini piaggio cc 50,scooter di ultima generazione, e con questi mezzi tutte le strade non battute erano per noi mondi inesplorati da conquistare. Naturalmente eravamo tutti maschi, ma non perché le femmine non ci piacessero, anzi quando ne parlavamo ognuno di noi esagerava raccontando le proprie avventure d’amore, ma solo perché quando rimanevi realmente da solo con una ragazza, oltre a qualche bacio, non c’era tanto da fare, quindi finivi per scocciarti e aspettavi il momento in cui saresti ritornato dai tuoi compagni raccontando ed enfatizzando la tua avventura.

In una mattina di luglio decidemmo di andare al mare con i motorini, in un posto in cui fare i tuffi da alte scogliere era la normalità del bagnante, quindi ognuno prendeva con avidità posto sul motorino più bello e veloce e per me che ero un ritardatario patologico, avevo ottenuto il piacere di essere accompagnato dall’amico di infanzia Luca Trombetta, che scoreggiava per diletto e per giunta possedeva un Benellino con un sellino minuscolo e i pedali per il passeggero non esistevano, questo significava avere le gambe alzate per tutto il tragitto, trattenendo dolori e crampi tra smorfie e svenimenti improvvisi. Ognuno di noi aveva sempre con se un tubo di plastica per fare benzina self service presso le auto parcheggiate e incustodite dai poveri proprietari, ignari del perché quando riprendevano l’auto, quella maledetta spia gialla era sempre accesa. Arrivati sul posto, la vidi, era con delle amiche che osservava chi si tuffava dalla grande scogliera, allora non perdemmo tempo ci spogliammo e con i nostri bei costumi da mare ultimo grido, incominciammo a turno a incitare il prescelto per il tuffo più bello. Arrivò il mio turno, ed io imbarazzato dalla visione della mia bella, ebbi un’idea per farmi notare, mi sarei tuffato di testa così da ottenere l’applauso globale di tutti e mi sarei presentato finalmente a lei da trionfatore. Ma la mia solita fortuna volle, che quando mi tuffai ed entrai in acqua, il costume come per magia si sfilò, lasciandomi completamente nudo in mare, le risate echeggiavano nell’aria come musica ad alto volume lasciando la sola vergogna come mia presentazione al mondo intero, perché gli amici presi dall’entusiasmo gridavano il mio nome: . Anche quella volta la mia figura di popò mi precedette, ma non fu l’unica perché negli anni successivi ci furono altre occasioni che mi presentarono come sfigato, comunque non mi ero mai rassegnato al mio amore.

Finalmente dopo anni, riuscì a sapere per puro caso dove abitasse la mia bella, era in una casa vicino al mare, lei e la sua famiglia venivano a passare le vacanze estive in quel luogo, ecco svelato il mistero, del perché riuscivo ad incontrarla solo l’estate. Ed ora arriviamo al punto di partenza della storia, a pochi minuti prima della mia fuga dall’omone incacchiato. Mentre ero immerso nei miei pensieri passeggiando in riva al mare fiancheggiando case singole, la mia attenzione fu richiamata dalla voce di una signora che chiamava la figlia per farla rientrare in casa , non ci misi molto ad associare il nome alla più bella creatura che abbia mai visto, era lei in carne ed ossa, la mia amata. Ora sapevo dove abitava, la vidi entrare, e senza pensarci e ragionare corsi verso l’abitazione, suonai il campanello e non avendo avuto il tempo per una preparazione giusta ad una presentazione degna di un galantuomo, feci un’azione che non aveva un minimo di spiegazione razionale.

La porta si aprì, e lei Venere dell’olimpo si presentò davanti a miei occhi, con un sorriso di cordialità di chi aspetta che un’azione gli venga rivolta, e così senza dire una parola la baciai. In un centesimo di secondo si materializza dietro di lei il padre, un uomo grande e grosso che cerca in quel momento di afferrarmi, ma io con l’agilità di un felino scappo e corro via. Sto correndo come un pazzo e sorrido perché lo baciata, il corpo sprigiona una forza a me sconosciuta fino a quel momento, le gambe si muovono così velocemente che sembrano sparire, ed il cuore batte senza pause, anche se dietro di me c’è suo padre che vuole uccidermi, io riesco a pensare ad una sola cosa. La madre l’ha chiamata Rosa, il padre Rosina, ma per me è la mia bella Rosinella.

Giovanni Giuliano

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