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Ritorno a Itaca – Racconto di Raffaele Galiero

Erano passati vent’anni dal suo ritorno. Vent’anni senza smettere di guardare, con invidia, le navi lasciare il porto con l’alta marea, senza smettere di arrampicarsi, con la fantasia, sul pennone più alto, per essere il primo a gridare Terra. Vent’anni senza smettere di soffiare sulle vele, orfane del vento, per spingerle un po’ più in là del limite raggiunto e cercarne un altro, ancora da raggiungere, un po’ più in là. Vent’anni senza smettere di sognare battaglie feroci con il mare, naufragi senza speranze e approdi miracolosi. Vent’anni senza smettere mai.
Aveva sentito il bisogno di fermarsi, quella volta. E aveva cercato il mare nelle lacrime di Penelope e terre straniere nel suo sorriso. Le lacrime si erano ben presto asciugate, e il mare, che aveva sperato di vedere, era scomparso con loro. La delusione per quella scoperta gli riaccese il desidero di andar via. – Domani partirò. – aveva pensato, ma a quel domani se ne aggiungeva sempre un altro e un altro ancora.
Penelope gli leggeva nel cuore e lo interrogava con gli occhi, senza osare chiedere.
Doveva spostare lo sguardo per resistere a quelle richieste silenziose ma la notte, a letto, la testa di lei sul petto, addormentata, con le mani a stringergli i fianchi, cedeva a quella dolce violenza, e pensava – Domani. Partirò domani. –
Quanto amava sua moglie e quanto l’aveva amata, anche quando , solo per soddisfare i sensi, aveva ceduto al bisogno del corpo con donne che gli avevano dato amore, ricevendo in cambio solo briciole di arrogante passione.
Mi sei mancata – le diceva, sussurrando, per paura di svegliarla, mentre le accarezzava il corpo con dita nodose e tremanti.
Il tempo stava ridisegnando i loro corpi. Il suo sembrava arrendersi al passare delle stagioni. Un inverno dopo l’altro, scopriva un piccolo, inesorabile mutamento nei muscoli, un tempo tesi con la corda del suo arco, nel ventre che si arrotondava, nei pensieri, che avevano perso quella imprevedibilità e quell’immediatezza, tanto temuta da uomini e dei.
Anche il corpo di Penelope era cambiato. Ma con lei il tempo era stato più generoso che con lui.
Ne aveva addolcite le forme, una volta spigolose sulle spalle ossute e sui fianchi, scarni, che la maternità, prodigiosamente, aveva colmato. Il seno aveva perso l’arroganza dei vent’anni, riempiendosi negli anni, come un frutto maturo che grava sul ramo ai cui è appeso, pronto per essere colto e addentato.
Anche le cosce, un tempo rigide colonne d’alabastro, avevano perso la rigidità della pietra, per diventare una guida, accogliente, che conduceva alla vita e al piacere.
Mi sei mancata – pensava, durante le notti estive intrise di sudore.
Le guardava, incantato, il volto, le spiava il respiro, senza liberare la mano che lei, prima d’addormentarsi, gli stringeva, per trattenerlo, come l’ancora, calata sul fondo, trattiene la nave.
In quelle notte di veglia, Ulisse fissava la stella polare, compagna sicura di tanti viaggi, e la vedeva allontanarsi sempre di più fino a scomparire, mentre il Grande Carro si copriva con il volto della sua sposa.
Pensava ai vent’anni persi in una inutile guerra e in un tormentato ritorno, ma anche ai vent’anni di battaglie tra il desiderio di restare e la voglia di partire e capì che quello era il castigo degli dei.
L’infelicità di chi non sa godere delle cose che ha avuto, e l’insoddisfazione per le cose già possedute, che lo spingevano a cercarne ancora, altrove, gli appartenevano, come l’aquila appartiene al cielo e l’ulivo alla terra in cui si annoda.
Ma adesso era stanco e voleva riposare.
Pregò gli dei che gli cancellassero dal cuore la voglia di andare, che potesse godere, per tutto il tempo che gli era stato destinato, delle cose che aveva.
Penelope, il mattino dopo, cercò invano di svegliarlo. Il volto di Ulisse era sereno, come quello di chi ha trovato, finalmente, un luogo dove restare.

 

Raffaele Galiero

 

 

 

 

 

 

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