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Quarta feira – Racconto di Maria Monda

1- Alla deriva
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Stringo il supporto con forza. Lascio che un residuo fasullo di gentilezza, mescolandosi all’umore del palmo di una mano, mi sfugga di dosso e si incolli, con le mie impronte, a questo pezzo di metallo dipinto di giallo.
Il valore di una pena, che non vale la pena provare, si misura nella rabbia che trattengo e, a singhiozzi, tiro fuori attraverso il respiro.
Tra un po’ tornerò all’aria aperta, ma adesso è uno sforzo tenermi in equilibrio in mezzo a questa marea umana, in cui io mi inserisco come un sacchetto di rifiuti spinto alla deriva.
Drammatizzo troppo ultimamente. Ho reazioni estreme, sconsiderate. Poi mi giustifico, perché posso farlo. Ma mi chiedo se il malumore sia effetto o piuttosto causa del mio malessere. Perché, ormai, è sufficiente un’inerzia affinché la luce scompaia e diventi tutto buio.
Come poco fa.
Non credevo sarei riuscita a sedermi. L’autobus a quest’ora è sempre troppo pieno. Eppure un sedile libero c’era. Non ho neppure dovuto sgomitare per raggiungerlo, né lo avrei fatto. Quel sedile era rimasto libero per me, nonostante la folla di estranei in piedi lì vicino.
Mi sono seduta ed ho pensato che me lo meritavo. La logica ordinatrice dell’universo aveva colto, senza troppo impegno, la necessità di tutelarmi, facendomi trovare quel posto vuoto.
Sono rimasta seduta all’incirca dieci minuti.
Poi la donna seduta al mio fianco mi ha chiesto di farla passare, poiché stavamo raggiungendo la sua fermata. Gentilmente mi sono alzata, gentilmente mi sono spostata indietro per lasciarle lo spazio necessario per muoversi, gentilmente ho persino aspettato che un ragazzo prendesse il suo posto.
Poi dal nulla è comparsa lei e, meno gentilmente, ho assistito, sorpresa, alla fretta con cui ha tuffato le natiche su quel sedile che, fino a poco prima, era mio.
Un gesto studiato, diretto, perfetto.
Mi sono sentita così stupida!
Si è seduta e, come una codarda, ha prontamente abbassato lo sguardo.
Io, per non soccombere all’istinto di tirarle i capelli, mi sono girata di spalle a guardare fuori dal finestrino.
Il nastro d’asfalto e le case e i marciapiedi e le auto e le moto e i negozi e tutti gli altri componenti urbani, che caoticamente arredano la città, dichiarano che mancano almeno altri venti minuti di viaggio alla mia destinazione.
Mi toccherà trascorrerli in piedi.
La logica ordinatrice del mio universo, quella grazie a cui, ultimamente, va tutto di merda, stavolta mi aveva quasi convinta del contrario.

2- Senza molte alternative

Una volta mi chiamò “meu amor”. Fu evidentemente un lapsus, per il modo in cui si riscosse e per il rossore che gli colorò le guance, dopo quelle parole. Io, dal mio canto, feci finta di non averle sentite, ma le avevo sentite e non mi avevano procurato alcun disagio.
Al contrario, mi avevano fatto bene. Non tanto e non solo per un bisogno di affetto che, di ultimo, mi porta a custodire con cura qualunque gesto gentile mi venga rivolto, ma, anche e soprattutto, per il posto in cui me lo aveva detto.
Insomma, nessun medico, in nessun ospedale, neppure per errore, mi aveva mai chiamata “amore mio”.
E, infatti, dopo quella volta neppure lui lo ha più fatto.
All’inizio, era molto gentile, premuroso, speranzoso. Adesso, ho quasi la sensazione di dargli fastidio. Uso il “quasi” perché so che è una sensazione infondata.
Non sono io a dargli fastidio. È ciò che di me e su di me non funziona, ciò che lo rimette ai limiti della sua professione, arginando le sue possibilità nella sfera ipotetica del “forse, un giorno, si potrà trovare un rimedio alla tua situazione”.
Ma mi importa poco di cosa sarà possibile in futuro. A me interessa sapere cosa posso fare adesso.
-Lo perderò?- gli chiedo.
-È molto probabile che accada.- e aggiunge qualche frase di circostanza per alleggerire, più a se stesso che a me, la pesantezza di un responso di cui io soltanto dovrò sobbarcarmi la responsabilità.
Il resto è un invito a rimettermi all’effetto palliativo di antibiotici, il cui nome spicca come una formula magica impronunciabile, su un foglio di carta, che prontamente infilo in borsa.
Me ne vado e il dispiacere diventa concreto e totale, una tristezza che ha i contorni di una nebbia sottile che riempie tutto il corridoio, copre tutti i pazienti in attesa e arriva ad infilarsi, sotto le porte, in ogni stanza.
La disperazione non lascia molte alternative. È mia, ma sembra riguardi tutto il mio mondo.

3- Crudele

Quando voglio premiarmi o farmi un regalo, mi compro una coxinha. Possibilmente, quella con catupiry. Possibilmente, in una lanchonete del centro, dove costano meno, sono giganti e il ripieno è meraviglioso.
Non è esattamente una di quelle situazioni per cui penso che andrei premiata, ma la mattinata è stata difficile, è quasi ora di pranzo e una coxinha non sarebbe affatto male.
Mi basta un’occhiata alla vetrina, per accorgermene, ma, per sicurezza, chiedo.
– Una coxinha con catupiry?
– Mi spiace, sono finite.
– Cos’altro avete con il catupiry?
– Dunque… Empadas, tortinhas de frango e pão de batata.
Il pane di patata è simpatico. Non l’ho mai provato, ma sembra invitante.
– Ok, vado a fare lo scontrino.
Alla cassa non c’è fila, ma non c’è neanche il cassiere. Nel frattempo, ne approfitto per controllare quanti contanti mi sono rimasti. Con l’indice infilato nel portafoglio, infilato nella borsa, sto scorrendo le banconote, quando un uomo mi dice qualcosa.
Alzo la testa. Ho abbastanza denaro.
L’uomo di nuovo mi dice qualcosa.
– Che?
– zf%£xkri#@eo#%×
– Guardi, sono straniera, non capisco, chieda a qualcun altro.- e, parlando, storco al massimo la mia pronuncia, affinché non ci siano dubbi che non sto mentendo.
Ma l’uomo non se ne va. Ripete, stavolta scandendo bene le parole.
– Per favore, mi compri qualcosa da mangiare?
Voglio che nella mia agiografia si scriva che, nel mio percorso di elevazione terrena a beata, santa e martire, aiutare gli estranei in difficoltà mi è sempre stato motivo di grande gaudio all’alma.
La verità è che lo manderei a fanculo, senza troppi se e troppi ma. Ma non ci riesco.
Non credo meriti la mia gentilezza, allo stesso modo in cui io non mi merito certo un giorno tanto infame.
Lui però non può saperlo e, perciò, mezza scocciata, gli chiedo – Cosa vuoi che ti compri?
– Quello che vuoi tu.
– Senti, vai a guardarti la vetrina, vedi cosa vuoi e me lo dici, ok?
Nel frattempo, appare un cassiere.
– Pago un caffè, un pão de batata e quello che desidera il signore, quello che sta lì in piedi di fronte alla vetrina.- gli dico.
Il cassiere allunga il collo e, rivolgendosi al cameriere, gli chiede cosa l’uomo abbia scelto.
– Un pão de batata.
– Ok, allora pago due pão de batata e un caffè.
Pago, prendo lo scontrino e mi muovo verso il banco. L’uomo mi sorride. Ha in mano un piattino con dentro il pão de batata che gli ho comprato. Lo solleva felice, come fosse un trofeo.
– Posso andare?- mi chiede.
– Certo che te ne puoi andare.
– Grazie. Davvero. Grazie.
– Figurati.- gli dico. E lo guardo andare via.
Il cameriere attende il mio ordine.
– Un caffè e un pão de batata.
– Scusami, ma per il pão de batata ti tocca aspettare. Quello che ha preso quell’uomo era l’ultimo. Nel frattempo però puoi sederti.
Mi siedo. Che altro potrei fare?
Mi tocca aspettare un bel po’ prima che la mia ordinazione raggiunga il tavolo.
– Scusa per l’attesa. Ma in compenso il tuo pão de batata è caldo caldo e appena sfornato. Fai attenzione a non scottarti, quando lo mangi.
Bevo prima un sorso di caffè. È una vera ciofeca. Poi, con molta premura, comincio a maneggiare il pão de batata. Non scotta, in realtà non sembra neanche tiepido, ma forse sono io che ho la temperatura sballata. Provo a dare un morso e…. Cavoli, è proprio freddo. Ma non freddo che era caldo e poi è diventato freddo. Magari! Questo coso è freddo di un freddo che era congelato, lo hanno piazzato in un fornetto per due secondi ed è meno congelato. Praticamente, ho aspettato un quarto d’ora per un pão de batata crudo.
Crudo.
Crudele.
Allontano il piatto. Nemmeno termino il caffè.
Chissà com’era il pão de batata che ho comprato all’uomo. Non so perché, ma scommetto che il suo era delizioso.

4- Lieto fine

– Aspettavo tue notizie.- mi dice, vedendomi incontro per abbracciarmi.
La stringo forte.
Non ho molte persone da abbracciare, perciò, tutte le volte che le mie braccia arrivano a circondare una persona, io ci metto dentro tutto il calore che posso.
Avrei dovuto scriverle. Ma non sapevo da dove cominciare. Se avessi avuto qualcosa di bello da raccontarle, sarebbe stato più facile e, probabilmente, qualche frase gliel’avrei inviata.
Ma di cose belle è un po’ che non me ne capitano. E le brutte notizie a me non piace darle.
– Sono stata dal dottor Lucio.- le dico, per ovviare alle mie mancanze. Nel frattempo, mi metto a sedere di fronte allo strumento diagnostico.
– Com’è andata?
Le riferisco quello che ho chiesto, quello che mi è stato detto, quello che ho sentito e quello che tuttora sento.
L’espressione le si ingarbuglia in un concentrato di stizza.
Controlla come sto, ma è evidentemente in preda ad uno sconforto che prova a stemperare allontanandosi e muovendosi libera nella stanza.
– È ovvio che possiamo perderlo.- mi dice, con il tono di chi sia giunto a scoprire una triste verità, dopo una lunga riflessione- Ma noi stiamo facendo di tutto perché non accada.
Ammiro la sua volontà di non arrendersi.
Sembra, e per certi versi lo è, più motivata di me.
Io sono quasi allo stremo. Comincio a chiedermi che senso abbia continuare a sperare in un lieto fine. Comincio a chiedermi quale sia il mio lieto fine.
Perché forse il punto è questo.
Il benessere idealizzato, calato nella realtà, acquisisce i contorni di un’utopia irrealizzabile, al cui confronto, persino, l’ipotesi peggiore diventa sopportabile.
Certe battaglie bisogna perderle, se l’unica prospettiva è una vittoria di Pirro. Ma la resa è più umiliante di una sconfitta sul campo. Per questo, resisto.
– Venerdì, ti opero di nuovo. Finché esisterà una possibilità, io continuerò a giocarmela.
Anch’io, penso. Voglio giocarmela ancora anch’io.
In fondo, finché non è finita, non posso impedirmi di desiderare un lieto fine.

 

 

Il Pierpo

 

 

 

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